martedì 23 dicembre 2008

SIAMO TUTTI INCAPPUCCIATI



















In calce a queste quattro immagini, che illustrano tutto il bello e il giusto con cui resistenti a noi vicini hanno seppellito un fetido 2008 e, auspicabilmente, tre fetidi decenni di arretramenti e di degrado verso un neo-protocapitalismo parafascista e planeticida, aprendo verso un 2009 e seguenti di contrattacco e salvezza, c’è un documento la cui ricchezza e complessità sono l’ideale con cui occupare le giornate post-sbornia e post-pantagruelismo ed attrezzarsi allo scontro che l’anno in arrivo ci imporrà.
Questo documento dell’Assemblea Nazionale tenutasi a Roma e diffuso dal Collettivo Autorganizzato Universitario, rende onore al movimento fiorito nella melma della nostra classe politica mafifascista, di un’opposizione parlamentare collusa e di una sinistra, o degenerata e poltronara, o frantumata in monadi autoreferenziali e masturbatorie che si chiacchierano addosso. Essendo quanto di più lucido e comprensivo sia stato elaborato, nel fuoco di lotte concrete, da intelligenze e volontà che hanno tutti i requisiti per candidarsi ad avanguardia politica, sociale e culturale anticapitalista ed antimperialista, mi sono preso la libertà di inserire questo documento nel mio blog http://www.fulviogrimaldicontroblog.info/. Buon anno!
(La prima immagine in alto mostra la sede del sindacato occupato dai rivoltosi ad Atene. A noi vegliardi ricorda la gloriosa cacciata del concertazionista Lama dall'Università La Sapienza nel 1977. La seconda in senso orario è un saluto contundente, come dice Chavez, ai rosagigli che, rannicchiati nei caldi interstizi della società borghese, lanciano anatemi contro gli "incappucciati". La terza cin insegna a bene celebrare il Natale).



DOCUMENTO POLITICO DELL’ASSEMBLEA NAZIONALE
13-14 DICEMBRE 2008, TOR VERGATA – ROMA


Il 13 e 14 dicembre 2008 si è tenuta all'Università di Tor Vergata un'assemblea nazionale di movimento, nata da un’esigenza largamente condivisa da quei singoli e realtà politiche che hanno attivamente preso parte, in questi mesi, alle proteste contro la legge 133 e contro tutte le misure governative in materia di Scuola, Università e Ricerca.

Dopo una prima fase di mobilitazione, in cui l’agitazione spontanea è stata predominante, si sono infatti cominciate a definire le rivendicazioni e a costruire le piattaforme politiche, entrando nel merito delle tante questioni aperte dal movimento. In questa seconda fase ci siamo resi conto che, condividendo punti di vista e prospettive, era necessario socializzare i percorsi di lotta e le analisi politiche maturate negli ultimi mesi e negli anni precedenti. Naturalmente quest'assemblea non ha rappresentato che un primo passaggio, necessario ma non sufficiente: quello conseguente è lavorare insieme per incidere in maniera efficace sul tessuto sociale e sulla realtà quotidiana.

La due giorni di intensi dibattiti si è articolata in due momenti di confronto assembleari sull'autorganizzazione, e in due tavoli di lavoro plenari, che hanno affrontato il rapporto fra “Scuola e Università, Capitale e Lavoro” e fra “Università e movimenti sociali”. La prima necessità dell'assemblea è stata infatti quella di fare il punto sulle varie esperienze di mobilitazione, e di portare avanti l'analisi teorica in modo da strutturare meglio le proprie pratiche.
Non è quindi un caso che il perno della discussione in tutte le assemblee sia stata la lettura della crisi economico-finanziaria. Differentemente da tutti quelli che hanno sprecato fiumi di inchiostro sostenendo che la “crisi” è solo “crisi della finanza”, noi siamo convinti della necessità di ribadire che si tratta sì di crisi, ma di una crisi di accumulazione capitalistica che viviamo da almeno trent'anni, e di cui la recente deflagrazione finanziaria è soltanto l’ultimo, violento, momento di svolta. I meccanismi di speculazione e indebitamento, che oggi vediamo crollare, non sono infatti il prodotto di alcune “mele marce”, ma una delle strade battute a partire dagli anni '70 per sopperire alle difficoltà di valorizzazione dei capitali. Mettere in discussione il capitalismo significa quindi prima di tutto chiarire che non può esistere un lato 'buono' di un sistema fondato su sfruttamento ed oppressione: finanza ed economia reale sono due aspetti dello stesso modo di produzione. Condannare il capitalismo rapace degli speculatori e delle banche, lasciando intendere che ve ne sia uno buono da difendere, o uno “sostenibile”, significa mistificare la realtà, e cedere le proprie armi critiche al nemico.

Per tentare di uscire da questa crisi di accumulazione, il capitale ha messo in campo diverse strategie: oltre alla finanziarizzazione e al controllo dei fondi e delle politiche monetarie attraverso organizzazioni transnazionali, è ricorso anche alla guerra globale e allo sfruttamento massiccio dei paesi del Sud del mondo (sia delocalizzando lì la produzione, sia abusando delle ingenti risorse naturali di quei territori). I governi e gli imprenditori, con la collaborazione di finte opposizioni politiche e il ruolo attivo dei sindacati concertativi, hanno poi attaccato direttamente le condizioni di vita delle classi subalterne. Hanno tentato di ridisegnare tutta la società, modificando alcuni aspetti fondamentali della sua organizzazione: il ruolo dello Stato, il mercato del lavoro, il sistema pensionistico, la sanità, i trasporti, incentivando lo scempio ambientale e la privatizzazione di risorse quali l'acqua e l'aria. In questo modo hanno limitato e depotenziato la conflittualità sociale, aperto incessantemente nuovi spazi di mercato, suscitato ad arte nuovi, redditizi bisogni.

In questo vasto processo di precarizzazione e sfrenata mercificazione, l’istruzione e la ricerca non sono state risparmiate, ma riformate rispondendo all’esigenza di costruzione di un’economia basata sulla conoscenza. È per costruire uno Spazio Europeo dell’Educazione Superiore e della Ricerca (funzionale, insieme all'Esercito europeo, all'aspra competizione sullo scenario mondiale) che i governi dei paesi membri dell’UE stanno armonizzando i sistemi di istruzione, portando avanti, pressoché ovunque, “riforme” di stampo neoliberista (si pensi alla Francia, alla Spagna, alla Grecia). Indagare le connessioni che esistono tra il sistema formativo, il quadro economico generale e le ristrutturazioni che avvengono a livello europeo ci ha permesso di comprendere in che modo i meccanismi di selezione di classe e di disciplinamento si sono evoluti e si evolvono, proprio a partire da scuole ed università.

Da questo punto di vista, l’introduzione del 3+2, di stage e tirocini obbligatori durante il corso di studi, del sistema dei crediti formativi (CFU), il nuovo ruolo dei privati negli atenei, il life-long learning, lo smantellamento di ciò che resta del diritto allo studio (mense, residenze, borse di studio), sono solo alcuni degli elementi concreti emersi durante la discussione assembleare.

Il credito formativo è stato uno dei punti dirimenti del confronto: la posizione “suggerita” dai report della Sapienza (workshop del 15 novembre), ovvero l’abolizione del sistema dei CFU attraverso un loro “inflazionamento”, è stata messa duramente in discussione. Il credito è definito come la misura del volume di lavoro di apprendimento, compreso lo studio individuale, richiesto ad uno studente in possesso di adeguata preparazione iniziale per l'acquisizione di conoscenze ed abilità nelle attività formative previste dagli ordinamenti didattici dei corsi di studio (cfr. Decreto Ministeriale, 3 nov. 1999, n. 509). Non è altro che una misurazione matematica del tempo di apprendimento (e non della conoscenza) che ha contribuito all'ulteriore dequalificazione della didattica. Esso racchiude la somma di lavoro che va dalla didattica frontale (apprendimento formale), allo studio a casa, fino all’acquisizione di skill e dispositivi pratici sui luoghi di lavoro (apprendimento informale). Non importa dunque l'acquisizione di un metodo, o una complessiva crescita culturale e personale, ma solo il riempimento di tempo “vuoto” con una serie di nozioni parcellizzate. Se dunque da una parte il credito formativo spinge ulteriormente in avanti il processo di mercificazione dei saperi (si pensi anche alle vergognose convenzioni con corporazioni di ogni tipo che le Università hanno sottoscritto per fare cassa, rese possibili proprio dall'introduzione del CFU), dall’altro contribuisce a creare uno standard comune di accesso al mercato del lavoro a livello europeo.

Così, l’ipotesi di “inflazionamento” dei CFU è paradossale e segna un arretramento delle nostre lotte: si dice di criticare il contenuto, ma non si tocca il contenitore. Piuttosto si collabora e legittima il sistema dei crediti, gli si conferisce credibilità presso gli studenti, e si portano, già nella fase della formazione, logiche baronali e di cooptazione, attraverso lo sviluppo di rapporti privilegiati con i docenti e con le autorità accademiche che devono riconoscere il “controcorso” (e che non hanno troppi problemi a farlo, visto che nel quadro di un assoggettamento totale dei percorsi curriculari alle esigenze del capitale, viene prevista quest'irrisoria valvola di sfogo: già la legge Ruberti del 1990 prevedeva attività formative autogestite dagli studenti; Zecchino consente poi che una piccolissima percentuale dei crediti formativi sia riservata ad attività formative autonomamente scelte dallo studente – cfr. stesso Decreto Ministeriale). L'autoformazione con i crediti è così perfettamente compatibile con le esigenze dei poteri accademici e economici, non li scalfisce, ma anzi li rafforza, svolgendo la funzione di moderare le lotte.
L'unica posizione possibile e necessaria è quella di lottare senza ambiguità per l'abrogazione del sistema dei crediti, portando avanti iniziative culturali, incontri, dibattiti davvero autogestiti e orientati in modo antagonista; non facendo tesoro di qualche “lezione” calata da professori o da ricercatori in cerca di visibilità, ma del confronto orizzontale fra i soggetti mobilitati e con soggetti esterni alle università, come lavoratori, migranti, realtà di movimento. Non si tratta insomma di rinchiudersi nelle aule privilegiate del “sapere”, ma di rendere l'Università un luogo di transito per le lotte aperte nelle metropoli e nei territori. Perché l'università non è degli studenti, è, o dovrebbe essere, di tutti, al servizio della collettività.

Bisogna quindi anche mettere in questione tutte quelle proposte volte a sgravare lo Stato dagli oneri del sistema formativo. Si pensi alla spinta pubblicitaria verso i prestiti d'onore, che mirano a far acquistare allo studente il proprio “pacchetto formativo”. Viene caldamente “proposto” allo studente di indebitarsi, per avere la speranza che con la laurea trovi un lavoro ben remunerato, che possa estinguere il debito contratto nei confronti del finanziatore (che può essere una banca, ma anche un'azienda alla quale ci si lega fideisticamente). Così è lo studente che investe su se stesso, con buone prospettive di finire doppiamente ricattato: dal padrone a lavoro e dal “finanziatore” del prestito d'onore. Un tale sistema (proprio come quello dei mutui “drogati”) è in crisi persino negli stessi paesi dove è più radicato, e ha come principali conseguenze l'esclusione sociale, la ricattabilità dello studente, il suo indottrinamento forzato, la spinta a una competizione feroce con i suoi compagni.

Anche i tentativi di abolizione del valore legale del titolo di studio, supportati non a caso da grandi multinazionali, vanno in questo senso. In generale l'obbiettivo del capitale è quello di costruire da un lato un'Università di massa adeguatamente dequalificata, dove si sfornano lavoratori a basso costo, esposti alla precarietà, costretti a cicli di formazione continua e a pagamento (master, corsi di specializzazione etc), che possano rappresentare un “esercito di disoccupati” disperati e in competizione fra loro, e dall'altro lato di creare invece pochi luoghi di formazione altamente selettivi in cui si forma la classe dirigente solidale alle sue esigenze. Da questo punto di vista l'“emergenza”, lo “spreco” e la “meritocrazia” sono i paraventi ideologici con cui si cerca di veicolare riforme che in effetti rafforzano proprio l'arbitrio baronale e la dequalificazione dell'Università pubblica.

Per questo motivo un altro punto cruciale sul quale si è concentrata l’attenzione del movimento è quello della trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato. Una tale possibilità, che per molti atenei diventerà obbligo, comporterà da una parte che l’ingresso dei privati nei dipartimenti diventerà sempre più stabile, dall’altra che quei corsi di laurea che non rispondono a “criteri di produttività” verranno tagliati limitando inevitabilmente la libertà di studio nonché quella di insegnamento e ricerca. In generale, la trasformazione delle università in fondazioni, che è l'estremo effetto della privatizzazione (non si incide più con riforme curriculari o con una generica collaborazione con soggetti privati, ma tagliando nettamente i fondi, e costringendo dunque gli atenei a immettere al loro interno le uniche realtà capaci di erogare liquidità), non farà che aumentare le molteplici contraddizioni in cui l'università è inserita. Contraddizioni articolate su più livelli: fra logiche baronali e politico-clientelari; fra le diverse cordate d'interesse; fra il personale tecnico amministrativo e le dirigenze accademiche; fra le masse sempre più numerose di studenti esclusi dai livelli più alti della formazione e i meccanismi sempre più rigidi di selezione, repressione e controllo; fra le aspettative professionali degli studenti che completeranno il proprio percorso di studi e la loro crescente dequalificazione; fra i capitali stessi, in competizione per assicurarsi corsi di laurea favorevoli e “prestazioni d'opera vantaggiose”; fra Dipartimenti Atenei, Centri di ricerca, in opposizione, contro il buon senso e le pratiche di condivisione in uso fino a qualche decennio fa nella ricerca pubblica, per la registrazione di un brevetto o per accaparrarsi una fetta più grande di finanziamenti.

In questo quadro gli stage ed i tirocini sono un altro aspetto del riassetto dell’istruzione tutta, in funzione del mercato: acquisire conoscenze, attraverso la pratica sul posto di lavoro, è considerato formativo per gli studenti fin dalle scuole medie superiori. Ancora una volta, viene cancellata persino la parvenza di una cultura critica e slegata da logiche aziendalistiche: se da un lato parliamo di prestazioni di lavoro gratuite che permettono, in molti casi, di abbassare i costi per il personale di università e aziende non assumendo per gli incarichi coperti da stagisti, dall’altro il costo della formazione dei soggetti in ingresso (prima integralmente a carico dei privati) viene scaricato sulla collettività.
Stage e tirocini si delineano, quindi, come ulteriore ricatto per i lavoratori, in una fase in cui aumenta giorno dopo giorno il numero dei disoccupati, dei cassa-integrati e dei licenziati e in cui peggiorano visibilmente le condizioni di lavoro dello stesso personale nelle scuole e nelle università: si pensi all'esternalizzazione dei servizi, delle mense, delle biblioteche, che vengono affidate a imprese appaltatrici o subappaltatrici le quali non applicano ai lavoratori nemmeno le poche tutele tradizionali, e su cui il pubblico non ha più alcun controllo (con conseguente aumento del costo dei servizi e diminuzione della qualità).

Alla questione della mercificazione dei saperi è strettamente legato il modo in cui si configurano la didattica ed i suoi tempi nelle nostre aule: il voto, la lezione frontale, i ritmi serrati delle lezioni, sono strumenti che non permettono la fruizione di una cultura che possa realmente formare soggetti critici, ma contribuiscono a riprodurre l’ideologia dominante di cui l’università si fa portatrice. È per questo che non ci si può richiamare a cuor leggero al Trattato di Lisbona o alla Carta europea della Ricerca: questi sono piani per la costruzione di una ricerca funzionale allo sviluppo capitalistico ed a essa subordinata, non certo per lo sviluppo di un sapere libero.

Da questo punto di vista è importante ribadire come per “ricerca pubblica” non si intenda una ricerca genericamente finanziata dallo Stato e non dai privati, ma una ricerca che sia a beneficio della società. Una tale ricerca implica un cambiamento radicale della nostra società, della sua organizzazione politica e sociale. Oggi, anche laddove i fondi sono pubblici, la ricerca ha preso strade che devono assolutamente essere contestate. Sono infatti pesanti le responsabilità del mondo accademico nel prestarsi a fornitore di servizi per l'industria bellica, finendo per essere un utile strumento al servizio delle politiche imperialiste di guerra. E ancora, didattica e ricerca vengono oggi finalizzate allo sviluppo di prodotti farmaceutici, chimici, informatici, che saranno poi brevettati da quelle stesse aziende che ne ricaveranno profitti. Nel campo delle scienze umane questo vuol dire sviluppare sistemi di analisi e controllo, tecniche di promozione pubblicitaria, funzionali all'integrazione, alla spettacolarizzazione, al disciplinamento di vasti settori sociali potenzialmente conflittuali. Nel campo storico-letterario i condizionamenti dei fondi nazionali ed europei permettono una riscrittura della storia e della cultura a vantaggio delle esigenze attuali della classe dominante.

Per quanto riguarda il ruolo nella lotta dei dottorandi e dei ricercatori, soggetti chiamati in causa in prima persona in questo processo di ristrutturazione dell’Università e dello stato sociale, è per loro naturale, o dovrebbe esserlo, trovarsi alleati agli studenti. Come questi ultimi, essi subiscono una selezione di classe, che lascia a pochi la possibilità di andare avanti negli studi e di permettersi lunghe “attese”; per di più essi soffrono anche quei meccanismi di cooptazione e baronato che limitano la libertà della ricerca, ancor più minata dall’ingresso dei privati, con la possibilità (non remota e già presente in alcune facoltà scientifiche) che si ricerchi direttamente su commissione.
È per questo complesso di motivi che non si può parlare di “centralità del capitale cognitivo” o di funzione trainante dell'Università all'interno delle lotte. Non bisogna lasciarsi ingannare da formule demagogiche: da un lato bisogna riconoscere che il lavoro cosiddetto manuale non ha avuto né il tempo né l’agio di sviluppare teorie sulla sua centralità, anzi, è stato fatto sparire dall'informazione e dal dibattito culturale, con la complicità proprio delle elucubrazioni postfordiste; d'altro canto bisogna riconoscere che esso ha sempre di più assorbito funzioni intellettuali (cfr. il problem solving nei processi produttivi, a cui gli operai partecipano quotidianamente), mentre il lavoro “cognitivo” è spesso basato su precise funzioni materiali (cfr. le mansioni amministrative svolte da molti dottorandi e ricercatori). Nel rispetto delle specificità e delle condizioni concrete di vita, bisogna notare che le figure lavorative sono quindi inserite nello stesso ciclo produttivo: entrambe concorrono alla valorizzazione delle merci, entrambe sono esposte a processi di precarizzazione, entrambe vengono private di contratti collettivi nazionali e dei diritti sociali (quali quelli alla casa, alla pensione etc). Le risposte che il capitale ha dato alla sua crisi trentennale hanno tentato in ogni modo di frammentare la classe, opponendo artificialmente il lavoro “cognitivo” al lavoro “manuale”, offuscando i confini spesso molto labili che circoscrivono i due ambiti, e cooptando il primo con privilegi di casta e fornendogli un certo status. Per questo, anche se nel mondo della ricerca ci sono alcuni soggetti in attesa di “inserimento”, o che potranno sempre trovare un remunerato impiego nelle aziende, bisogna rilanciare una larga lotta unitaria fra i tanti che di questa proletarizzazione e scomposizione di classe patiscono le conseguenze.

Si è così giunti a una riflessione più larga sulla connessione che bisogna instaurare fra i diversi ambiti del conflitto sociale. La presenza di esponenti dei movimenti territoriali è stata fondamentale per trovare il legame con le lotte contro la devastazione ambientale e lo scempio territoriale. Non è un caso che nella stessa legge 133/08 sono contenuti, oltre ai tagli all’università, anche le misure di privatizzazione dell’acqua e i finanziamenti per l’energia nucleare. È lampante il nesso che lega lo smantellamento dell’istruzione e dello stato sociale all’attacco all’ambiente e ai territori, soprattutto se si considera, ancora una volta, il ruolo che la ricerca svolge (per volontà del pubblico o del privato) nella devastazione e nello sfruttamento ambientale, e la funzione assolta dai partiti e dai sindacati confederali (in continuità con i ben noti meccanismi clientelari, e spesso persino in collusione con mafie e camorre) nel portare avanti logiche di profitto.

Di fronte alla crisi e al massacro che sta producendo, lavorare sulle contraddizioni, iniziando a fare un discorso che miri dalle nostre università a costruire un lavoro politico che non sia studentista o corporativo, ma abbia la forza di collegarsi alle lotte di tutti gli altri settori che pagano questa organizzazione economico-sociale è dunque una necessità. L’obiettivo di tutti i partecipanti all'assemblea è dunque quello di lavorare nella prospettiva di un confronto stabile tra lavoratori e studenti (che sono lavoratori in formazione, lavoratori di oggi e di domani), assolutamente svincolato dalle pratiche concertative di alcuni sindacati e partiti. Per questo motivo, è stato ritenuto fondamentale proporre la costruzione di assemblee con altre realtà autorganizzate non studentesche per provare a generalizzare realmente le lotte e tendere col tempo ad allargare sempre di più i nodi del conflitto.

In conseguenza di ciò, partendo dalle nostre specificità locali, abbiamo deciso di creare una rete di realtà studentesche che abbia un respiro nazionale, ma che guardi anche alle proteste che si sviluppano, contro le medesime riforme e attacchi, su un piano internazionale. Intendiamo così coordinare in modo efficace le nostre lotte e dare uno sbocco politico alle analisi condivise, dotandoci degli strumenti più opportuni ed efficaci. Tra questi, abbiamo individuato un sito internet, che funzioni come portale di collegamento nonché come mezzo di comunicazione politica, punto di riferimento per quanti, quotidianamente, lottano nella nostra stessa prospettiva. L’autorganizzazione, in questo senso, è stata argomento centrale ed è emersa come caratteristica fondamentale per costruire una struttura orizzontale che riesca a porre nell’agenda politica una pratica realmente conflittuale e di classe. Per aprire da ora, e nei prossimi anni, un lungo ciclo di lotte sociali. Per osare combattere, e osare vincere.

Roma, 14 dicembre 2008

lunedì 22 dicembre 2008

AUGURI







E il verbo si fece resistenza

Auguri per feste piene di spassi
e per un anno felicemente tosto.

Fulvio

domenica 21 dicembre 2008

MUNTAZER: SADDAM E' VIVO E LOTTA INSIEME A NOI






















Ho sempre ritenuto le azioni delle persone i migliori interpreti dei loro pensieri.
John Locke

These shoes are made for walking
And walking they will do
Some day these shoes will walk all over you

(Queste scarpe son fatte per camminare
E infatti cammineranno
Un giorno queste scarpe
Cammineranno addosso a te)
(Nancy Sinatra)

Due anni fa il legittimo presidente dell’Iraq, Saddam Hussein, veniva impiccato, sotto supervisione degli occupanti statunitensi, tra ingiurie e percosse di Moqtada Al Sadr e delle sue belve al servizio dei carnefici del popolo iracheno, al termine di un processo-farsa durante il quale tre avvocati dell’imputato furono assassinati e numerosi testimoni a difesa vennero espulsi, percossi e incarcerati. Ai criminali di Washington che gli avevano assicurato un salvacondotto per l’estero e la vita se avesse ordinato alla Resistenza di arrendersi, ha opposto lo stesso rifiuto con cui per trent’anni aveva risposto alle minacce, alle blandizie e alle aggressioni dei gangster del Nord. Nel corso del cosiddetto processo e dell’esecuzione, Saddam, svergognando e ridicolizzando i suoi accusatori e boia, ha dimostrato di che tempra fosse un iracheno che, dopo aver guidato due rivoluzioni contro il regime colonialista e contro la destra reazionaria, in trent’anni ha costruito la nazione più progredita, socialmente giusta, coerentemente antimperialista e antisionista dell’intero Medio Oriente. Ha retto, contro incessanti aggressioni, complotti filo-occidentali, attentati, rivolte istigate dai neocolonialisti, embarghi genocidi, la guerra scatenata su istigazione USraeliana dagli oscurantisti di Khomeini, uno Stato che noialtri ci impuntiamo a definire “autoritario”, per la spocchiosa indisponibilità a comprendere imprescindibili condizioni storiche e culturali da noi lontanissime. Ha rappresentato, con il consenso della stragrande maggioranza del suo popolo, l’estremo baluardo della resistenza laica e socialista alla rivincita imperialista, all’espansionismo israeliano, al dilagare della vandea integralista. Ha costruito diritti umani collettivi, quelli che contano nel riscatto di un popolo dopo millenni di dominio e depredazioni di tiranni esterni, l’alfabetizzazione, la sanità, l’istruzione, il lavoro, la casa, il benessere, lo sviluppo industriale, l’emancipazione delle donne, il rispetto delle minoranze (unico paese ad aver concesso ai curdi autogoverno e autonomia), l’esplosione di una creatività letteraria e artistica senza pari nella regione, il sostegno incessante a popoli perseguitati, palestinesi in testa, il ruolo di polo aggregante per le forze rivoluzionarie arabe e del Sud del mondo.

Tutto questo è stato sepolto, con la piena e ottusa complicità delle sinistre internazionali, da una campagna di diffamazioni contro l’uomo e la sua opera che non ha paragoni nella storia, dall’intento, evidente a chiunque non si disponesse alla lobotomizzazione politica e mediatica imperialista, di impedire che all’Iraq di Saddam e del Baath la società veramente civile, le masse proletarie, le classi sfruttate, i popoli oppressi, le avanguardie di lotta offrissero quella solidarietà che, in altri tempi, aveva sostenuto la decolonizzazione, le guerre di liberazione nazionale, le rivoluzioni socialiste. A un gruppo dirigente espresso dalla volontà di emancipazione del suo popolo, sotto incessante assedio da parte di potenze predatrici, intrise di ogni cinismo e ogni ferocia, ma impegnato contro tutto e contro tutti a costruire uno spazio di benessere, sovranità e dignità, si pretendeva di imporre il modello di borghesie sedicenti democratiche. Borghesie che alle spalle non avevano solo secoli di oppressioni dispotiche, ma il Rinascimento, il riscatto illuminista, la rivoluzione francese e quella russa. Liberatosi nel 1958, a prezzi di sangue altissimi, dell’ultima e più brutale dominazione straniera, quella britannica, l’ipocrisia occidentale, cristiana, bianca, esigeva che la società irachena, quella araba in generale, avessero maturato nelle istituzioni, prima ancora di una coscienza collettiva, le forme di governo con le quali dalle nostre parti ci si vanta di essere i migliori. I migliori, come si vede ogni giorno meglio, a ingannare, sfruttare, sterminare. Una pretesa antiscientifica, prima ancora che ipocrita e immorale.

Quello che Saddam ha saputo realizzare, per quanto sia stato occultato o deformato a noi nel Nord del mondo, sinistri eurocentrici, settari e presuntuosi, vive nel ricordo e nella coscienza del Sud del mondo, di quasi mezzo miliardo di arabi, della cui liberazione e unità è stato il massimo protagonista. Vive nella memoria e nella volontà di rivincita di tutti gli iracheni, esclusa la, a noi familiare, schiatta di lenoni, prostitute e cavernicoli religiosi. Vive nell’abbagliante contrasto tra come quest’uomo ha saputo resistere e morire e come lo hanno ucciso i vermi rigurgitati dal corpo frantumato del suo popolo. Vive e ha iniziato a demolire la colossale muraglia di menzogne – dalle armi di distruzione di massa ai curdi gassati, dagli sciti repressi ai comunisti sterminati, dai grotteschi sadismi all’ “uomo degli americani” – con cui i mostri della guerra e del vampiraggio hanno seppellito la verità. Ultima, la vicenda della sua cattura, presentata come quella di un barbone nascosto in un buco, sotto un albero pieno di datteri quando di datteri non era il tempo. Il racconto di testimoni iracheni e di marines ci hanno restituito un combattente che, tradito e individuato in casa di amici, si è difeso armi in pugno fino all’ultima pallottola, è stato messo in ceppi, drogato e torturato. Quindi esibito settimane dopo. Al suo popolo Saddam ha saputo portare la gentilezza della dignità e della vita, anche se il prezzo da pagare era quello di non poter essere sempre gentile.

Saddam, apparso tra la folla nel cuore di Baghdad il 9 aprile del 2003, mentre già i tank degli invasori massacravano tutto ciò che incontravano, aveva appena comandato le sue forze nella grande battaglia dell’aeroporto, costato agli invasori il più alto prezzo in vite di tutta l’invasione. Nei successivi nove mesi aveva organizzato e guidato quella Resistenza che ancora oggi, dopo cinque anni, è protagonista dell’opposizione armata e civile agli occupanti e ai loro fantocci, sotto il comando di Izzat Ibrahim Al Duri, già vice di Saddam e sempre vicepresidente legittimo dell’Iraq. Mi rendo conto che molti tra i lettori di questa inadeguata orazione funebre se ne ritireranno sconcertati, se non oltraggiati nelle convinzioni coltivate in tanti anni con il concime delle calunnie arrivate da orizzonti a 360 gradi. Non mi sottraggo al rischio di perderli, questi interlocutori. Lo debbo alla verità. Io ci sono stato nell’Iraq di Saddam. Sono stato negli anni ’70 e ’80 nella Baghdad spumeggiante delle accademie d’arte, delle scuole, delle organizzazioni di donne assurte a parità con gli uomini a tutti i livelli della politica e delle professioni, dei sindacati che agli operai costruivano le case, della sanità gratuita pari a quella cubana, degli ospedali visitati da pazienti da tutto i Sud del mondo, delle università frequentate gratis da milioni di studenti stranieri, di quartieri in crescita secondo i canoni di un’architettura attenta alla storia e alla qualità della vita, del milione di curdi sfuggiti alla morsa di capitribù radicati nel medioevo e spesso agenti del colonialismo (altro che Kirkuk “arabizzata” da Saddam, piuttosto una Baghdad curdizzata), tra contadini per la prima volta padroni della loro terra, tra puerpuere che godevano di ferie di maternità doppie delle nostre. Ci sono stato, in Iraq, quando un Khomeini appena insediato dall’Occidente, sterminati gli attori comunisti e islamici della rivoluzione contro lo Shah, veniva armato dagli israeliani (lo scandalo Iran-Contras, ricordate?) e lanciato contro il paese che aveva costituito il “Fronte del Rifiuto” per neutralizzare il connubio israelo-egiziano, sancito nell’accordo Begin-Sadat di Camp David. Pace tra due farabutti con la quale s’intendeva abbandonare il popolo palestinese al suo destino. Ci sono stato, in Kurdistan, quando, per la prima volta nella storia, quattro dei 20 milioni di curdi sparsi in quattro paesi e lì sempre esclusi e decimati, ebbero riconosciuta la loro identità, un autogoverno con tanto di parlamento, un’università e la loro lingua posta al pari in tutta la nazione a quella araba, il loro partito, PDK, incluso nella coalizione di governo con baathisti e comunisti. Era la fine di un ordinamento gerarchico tribale di stampo medievale, con la tirannia assoluta di capitribù predatori e narcotrafficanti e quella dei maschi sulle donne. Furono poi un paio di questi capitribù a vendere, in cambio di un po’ di man bassa sul petrolio, se stessi e i loro sudditi al predatore straniero, soprattutto israeliano, e ad opporre, insieme agli sciti di obbedienza iraniana nel sud del paese, la massima resistenza alla laicizzazione del paese, alla liberazione delle donne, alla fine dello schiavismo feudale.

Ci sono stato, sulle montagne curde al confine con l’Iran, quando Khomeini sbraitava dalle emittenti persiane contro il governo iracheno, invitava gli iracheni a uccidere il loro presidente, faceva seguire provocazione armata a provocazione armata, infiltrava terroristi nella regione di Basra, pretendeva di rivedere a proprio vantaggio i confini sanciti da accordi, occupava con colpi di mano isole arabe nel Golfo, cannoneggiava i villaggi appena al di qua della frontiera. Ne scampammo per un pelo. Tanti curdi ci rimasero. Gli iraniani avrebbero poi ripetuto l’operazione nel 1988 con i gas sul villaggio di Halabja, due anni dopo attribuiti a Saddam, onde agevolare la prima Guerra del Golfo Tutto questo mesi e mesi prima dello scoppio del conflitto, documentato e denunciato al Consiglio di Sicurezza nell’astuta indifferenza delle Grandi Potenze.

Ero in Iraq quando, spedito da Reagan (che i persiani avevano voluto presidente al posto del meno bellicoso Carter: vedi l’operazione ambasciata USA), Donald Rumsfeld chiese a Saddam di riaprire a un Israele privo di risorse energetiche l’oleodotto Kirkuk-Haifa. In cambio avrebbe avuto dagli Usa rivelazioni satellitari sui movimenti e sulle basi delle forze di Teheran. Il futuro torturatore fu rispedito a casa con le pive nel sacco. E le pive erano lo stesso rifiuto che Saddam aveva opposto alle pressioni e ai ricatti succedutisi dalla rivoluzione e dalla nazionalikzzazione del petrolio in poi allo scopo di ricondurre l'Iraq allo stato di un obbediente e redditizio sceiccato. C’ero quando un Iraq, già dissanguato dall’aggressione clericalfascista di Khomeini sponsorizzata dai colonialisti spodestati, dovette difendersi dal più spietato embargo mai inflitto a un popolo innocente, complice l’Italia, e lo sostenne mantenendo i capisaldi della sua giustizia sociale, della sua forza morale, della sua coesione patriottica, nell’isolamento della “comunità internazionale”, internazionalisti “comunisti” e brezhneviani compresi, e sotto i costanti eccidi delle bombe del taumaturgo veltroniano Clinton. E c’ero, infine, ancora una volta con il grande, con il mai abbastanza compianto Stefano Chiarini del “manifesto”, quando arrivò l’ultima ondata dei barbari, quella delle stragi e dell’uranio, con l’impennata oscena delle imposture e denigrazioni recepite avidamente o pigramente da tutti. Quando il popolo iracheno, inerme, non aveva più altro da sbattere in faccia ai suoi assassini che la forza inaudita della normalità della vita, il rifiuto del panico, la determinazione a proseguire quella resistenza di decenni, di secoli, che già aveva eliminato dalla regione l’impero mongolo, quello ottomano, quello britannico.

Mentre a Baghdad, sul carro dell’invasore, giungeva la feccia dei rinnegati e prezzolati fuorusciti in Occidente o in Iran, per succhiare al paese sbranato il sangue avanzato dal banchetto imperialista, mi trovavo affiancato sul taxi in fuga verso Amman da un pullmino di Stato iracheno. A un posto di ristoro lungo i mille chilometri di deserto i suoi passeggeri mi si rivelarono funzionari del Ministero per gli Affari Palestinesi che stavano portando alle vittime del nazisionismo l’ultima consegna di aiuti: 20mila dollari per le famiglie dei caduti, 10mila per quelle cui era stata rasa al suolo la casa. Alle loro spalle bruciava il paese in cui non sarebbero più potuti tornare. Oggi, nell’indifferenza di tante meritevoli associazioni di solidarietà con la Palestina, quel che resta dei 35mila profughi della Nakba accolti e restituiti alla vita e al benessere da Saddam e decimati dagli sgherri di Moqtada al Sadr e di altri fantocci, è sparso in campi dell’orrore e dell’agonia in tende dell’Onu sulla terra di nessuno tra Iraq e Siria. Se il silenzio perdura, la sabbia del deserto seppellirà presto anche il ricordo di questi dannati della Terra che la ferocia del mondo ha ridotto in condizioni peggiori dei martiri di Gaza.

E l’anniversario del più turpe assassinio dei nostri tempi che Muntazer al Zaidi, scita iracheno, ha celebrato lanciando le scarpe contro il vero pendaglio da forca che ha guidato lo sterminio del suo paese. “Un bacio d’addio nel nome degli orfani (5 milioni), delle vedove e di tutti gli assassinati iracheni”, gridò questo grande erede della dignità e del coraggio del suo presidente. Potenza di un paio di scarpe: in Iraq, in tutto il mondo arabo, in molti altri paesi sono apparse decine di migliaia di scarpe sollevate da mani e inalberate su aste. Manifestazioni antiamericane di massa che hanno assunto un particolare significato nell’indomabile Fallujah, in quel che resta della città fosforizzata dagli stragisti Usa, dove gli studenti, oggi ovunque vera avanguardia politica e primo soggetto rivoluzionario, hanno opposte scarpe alle pallottole dei marines. Le pallottole dei mercenari Usa hanno ferito un ragazzo, le scarpe hanno coperto di ridicolo e di infamia i necrocrati che li hanno armati. In Palestina, a Bilin, altra città che, a dispetto del quisiling Abu Mazen e della sua camarilla di corrotti e venduti, resta in piedi sotto l’uragano della repressione nazisionista, nella ricorrente manifestazione contro il muro dell’apartheid israeliana a centinaia hanno lanciato scarpe contro le bande armate degli occupanti. I colpi di queste hanno ferito otto resistenti, ma le scarpe di Muntazer si sono schiantate sulla maschera di perbenismo che la cricca nazisionista presenta al mondo. A Betlemme hanno sollevato le scarpe i giornalisti palestinesi, quelli che, come in Iraq gli Usa, Israele non è ancora riuscita a togliere di mezzo. E scarpe hanno bucato il cielo, la rassegnazione, lo scoramento e come aquiloni si sono trascinate dietro speranza e coraggio in Grecia, Egitto, Pakistan, Yemen, Libia, Algeria. Lo schiaffo scarpato inflitto al cretino che la cupola Usa aveva mandato avanti per la sua geostrategia di rapina e killeraggio, non potendosi stavolta nascondere il fatto avvenuto in diretta mondiale, ha costretto sguardi distratti o pervicacemente chiusi a rivolgersi verso quella resistenza irachena che tanto imbarazza le nostre sinistre, specie quando dimostra che la guerra asimmetrica rende invincibile un popolo e che l’Iraq è la trincea del mondo dei giusti. Una trincea in cui si riconoscono, a scorno dei sinistri taffaziani italiani, tutte le forze di resistenza all’imperialismo, a partire da quelle che stanno facendo dell’America Latina l’avamposto della liberazione. Una trincea dalla quale si uscirà per l’attacco finale e che concluderà la sua vicenda come fossa dei padroni e della loro era.

Di Muntazer, che aveva in casa il poster del Che e perciò con più gusto è stato massacrato di botte dai gorilla del premier-fantoccio Al Maliki, apprendiamo che il fratello Udai lo ha potuto finalmente vedere, ridotto in condizioni pietose, con la faccia sfigurata. Al momento dell'arresto gli avevano già spaccato la faccia, rotto il polso e diverse costole. Nei giorni della detenzione ha subito ininterrotte torture a base di bruciature, scosse elettriche e bastonate. Udai ha riferito che Muntazer ha giurato che non chiederà mai scusa a Bush e che intende perseguire penalmente tutti coloro che lo hanno torturato e maltrattato. Le sue condizioni e il rischio che corre la sua vita nelle mani degli aguzzini iracheno-statunitensi impongono che si rafforzi la mobilitazione internazionale e che si moltiplichino le firme sotto l'apppello per la sua liberazione (qui in calce). Se l’imputazione sarà di tentativo di assassinio di un capo di Stato, la pena non sarà inferiore a 15 anni. Se ci si ferma al’ingiuria, scende a sette. Dall’ufficio del quisling iracheno è uscita la notizia che Muntazer, da bandiera del riscatto mondiale si sarebbe degradato a pentito che chiede scusa. Ne ha riso tutto l’Iraq e il fratello Udai Al Zaidi ha ricordato come Muntazer non fosse stato ridotto a piegare la testa neanche quando fu sequestrato e torturato dai miliziani del regime e poi dai marines. Intanto il gesto, che equivale al botto del franchista Carrero Blanco spedito su un balcone e disintegrato dalla Resistenza, o allo schiaffo all’ominicchio democristiano Fanfani, o al ceffone dato dalla rivoluzionaria nordirlandese Bernadette Devlin al ministro della difesa di sua maestà, o alla pistolettata della Gibson sul naso del duce, tutte crepe insanabili aperte nella pomposa iattanza dei bonzi colpiti, sta avendo l’effetto del classico sasso nello stagno. In Iraq ha fatto esplodere il parlamento, dove è scoppiata una rissa senza precedenti tra bande di crassa obbedienza Usa e bande che o incorporano gli interessi degli iraniani, o sperano di salvarsi un frammento di faccia davanti alle masse in rivolta patriottica contro tutta la ciurmaglia predatrice iraniano-statunitense. Chi voleva Muntazer scorticato vivo, magari dagli stessi manigoldi che fecero scempio di un Saddam irriducibile da vivo e inerme da morto. Chi, cosciente della catastrofe che lumeggia all’orizzonte alla partenza delle truppe Usa (già in vaste zone i ras locali sono stati abbandonati in mutande dagli altri contingenti della “coalizione dei volenterosi” e gli inglesi se ne andranno quest’estate), s’illude di salvare almeno la pelle chiedendo indulgenza per il più amato scarparo della storia. Nella Zona Verde dei fortilizi con piscina Usa, delle stratosferiche ruberie dei fantocci, degli alberghi di lusso per giornalisti puttane siamo a una specie di Goetterdaemmerung (crepuscolo degli dei). La nemesi in avvicinamento, clamorosamente annunciata da Muntazer e che, quando Obama sposterà i suoi killer da lì all’Afghanistan per far fuori il Pakistan e poi concentrarsi su Russia e Cina, sbranerà l’intero bordello messo su da Bush, sta già provocando reazioni da panico. In un turbinio di colpi di scena e contraccolpi l’intero postribolo di regime sta sprofondando nel grottesco. Giorni fa è stato annunciato l’arresto di 38, no 35, no 28, no 17, alti funzionari del ministero dell’interno, quello decisivo negli equilibri di potere della camarilla, quello che si può vantare di buona parte del milione e mezzo di civili morti e dei quattro milioni di espulsi di cui si ha conta certa dal 2003 a oggi (non 75mila, Tommaso Di Francesco del “manifesto”, come vorrebbe quell’ Iraqi Body Count che omaggia gli occupanti con i soli uccisi riportati dai velinari sulla stampa di regime; nemmeno i 600mila riportati dalla rispettabile rivista medica “Lancet” ben due anni e mezzo fa, prima dei massacri del Surge e dei trapanatori di Moqtada e del ayatollah Al Hakim). Si sarebbe trattato, veniva detto subito, di infiltrati di Al Hawda (“Il Ritorno”), partito clandestino di baathisti. Poi non più, piuttosto di rivali di cosca, in vista delle prossime elezioni-farsa per i governi provinciali. Insomma, una resa dei conti tra branchi di sciacalli in decomposizione.

In Grecia siamo alla gloriosa terza settimana di una rivolta innescata sulla rabbia di milioni per la loro criminalità organizzata al potere dall’assssinio del Carlo Giuliani greco, Alexis.
Insurrezione che si potenzia con la moltiplicazioni degli “incappucciati”, tanto deprecati dal PRC, e con nuove occupazioni di emittenti radio e tv, sedi governative, giornali e piazze vaste come il paese. Vi saettano ancora le pietre e molotov che tanto imbarazzano quel KKE “comunista”, assunto dai sinistri cagasotto nostrani ad alibi delle proprio accidioso quieto vivere. E anche qui sono arrivate, nel loro volo planetario, le scarpe lanciate da Muntazer. Da noi, invece, niente scarpe. L’unica calzatura cui si ambisce sono le pinne che agevolino le varie consorterie per le loro gare di nuoto nella fogna della corruzione e della prevaricazione. Vi sguazzano hitleruzzi con il plusvalore della mafiosità e veltrusconi criptocamorristi. Vi si tuffa anche, uscendo di tanto in tanto dalla formalina, con il caravanserraglio dei suoi Svendola, Sansonetti, Migliore, Giordano e il sempre più osceno Luxuria, quella specie di Gorbaciov da saldi Upim che è il vecchio Bertisconi. In qualche modo le scarpe di Muntazer hanno rasentato anche quel cranio di nonviolento da salotto vespiano. Infatti l’infausto in disarmo s’è ben guardato dal farne cenno. Né ha ritenuto di pubblicare e magari firmare l’”Appello dei Cinquantamila” per la liberazione del collega e compagno Muntazer “il manifesto”, che si è limitato al beau geste di nominare Muntazer direttore per un giorno. Non male, ma vuoi mettere Muntazer con Giuliana Sgrena!

Qui, invece, si insiste a chiedervi la firma per una delle migliori cause del mondo d’oggi.
http://www.ipetitions.com/petition/iwffomuntatharalzaidi?e

lunedì 15 dicembre 2008

CHI TIRA SCARPE, CHI TIRA MOLOTOV, CHI TIRA MERDA













Ti lascio la mia lotta incompiuta
e il fucile con la canna arroventata:
non appenderlo al muro. Il mondo
ne ha bisogno.

Kriton Athamasulis

Questo pezzo doveva incominciare con altro argomento, ma quanto ho saputo stamane, prima che dai media, dall’impagabile fonte antimperialista http://www.uruknet.info/ (per anglofoni, con periodici bollettini in italiano), merita di essere messo in cima a ogni cosa, anche perché con il resto dell’esternazione programmata ha a che fare. Lo so anche perchè me lo ribadì e dimostrò Oscar Olivera, leader della Guerra dell’Acqua di Cochabamba, Bolivia, guerra identica nei modi e mezzi all’attuale di Grecia e che trasferì questo bene comune dalla multinazionale yankee Bechtel al controllo popolare e inaugurò la stagione dell’acqua pubblica in Latinoamerica: “Tutte le lotte nel mondo sono collegate e complementari”, disse, parlando di indigeni, di NoTav e di precari. Partiamo dunque con il fatto più bello e che mette a confronto chi fa il giornalista e chi fa cagare. Noi qui abbiamo Giovanna Botteri, che strillava e saltellava come un’oca scampata al paté celebrando l’arrivo dei terminator Usa a Baghdad. L’ho vista con i miei occhi all’Hotel Palestine, attimi dopo che una cannonata dei cavernicoli a stelle e striscie aveva sventrato quell’albergo e due nostri colleghi. Abbiamo anche Giuliana Sgrena, riscattata e glorificata dal sequestro e tornata a imperversare sul “manifesto”. Il titolo dice che è “tornata in Iraq”, ma il reportage è dal sicuro Kurdistan, staccato con spartizione etnico-confessionale iraniano-statunitense dallo storico corpo nazionale e affidato a due loschi capitribù narcotrafficanti, di assoluta obbedienza USraeliana, Barzani e Talabani. Capi di mafia-Stati sulla cui identità di megapusher dello spaccio mediorientale e sulla cui infezione sionista alimentata dal petrolio la piagnucolosa signora islamofoba non ha niente da riferire.

Ricominciamo. L’illustrazione in alto vi parla di un gesto plateale, plebeo, volgare, rozzo, burino. Nobilissimo, eroico. Qualcuno nel PRC lo direbbe “provocazione utile alla destra”. Vi parla di un giornalista del tipo che in questo paese non alligna e forse non ha mai allignato. Qui passano per i “migliori” direttori un po’ degenerati che aprono con “Forza Obama” e, il giorno dopo, con “Forza Luxuria”. Non si smentiscono mai: a suo tempo, quando ancora regnava il tirannello in cachmere, lo stesso “Liberazione” aveva festeggiato in prima pagina con “Belgrado ride” il colpo di Stato Usa contro Milosevic e la fine della libera Jugoslavia. L’autore del gesto si chiama Muntather al Zaidi ed è reporter presso “Baghdadia TV”, un’emittente indipendente e anti-occupazione che ha già passato i guai suoi. Anche Muntather è stato rapito, umiliato e torturato dalle squadracce scite della pulizia etnica operata contro i sunniti, per conto di Iran e Usa. Ma è tornato al suo lavoro. Il minus habens che sta per cedere la Casa Bianca al suo clone nero era al termine dell’ultima visita nel paese che ha raso al suolo e il cui popolo tuttavia, sebbene ridotto in polvere, glielo aveva messo in quel posto. Aveva scambiato effusioni con le chiaviche locali: Talabani, presidente cleptocrate, Barzani, feudatario curdo e mercante di uomini e droga, Al Maliki, premier-burattino appeso a un filo Usa e a uno persiano. Mancava Moqtada, baciato in segreto per conservargli la credibilità di Masaniello anti-americano, utile all’emarginazione mediatica della Resistenza vera, patriottica, baathista o islamica, che Sgrena e Bush, in sintonia perfetta, hanno iniziato un anno fa a chiamare “Al Qaida”.

Per accedere alla conferenza stampa dello psicolabile farabutto di Washington, Muntather non poteva far passare ai controlli iperuranici ciò che avrebbe probabilmente preferito: se non una bomba a mano, almeno una busta di escrementi degna degli odori e colori dell’anima di Bush. Poteva portare solo quello che aveva addosso. Scarpe comprese. Alzatosi di scatto, le ha scagliate una dopol’altra sull’idiota “comandante in capo” con a fianco l’atterrito attendente Al Maliki. Colpire con la suola è l’ingiuria massima nel mondo arabo. Contemporaneamente gli ha urlato “Questo è un bacio d’addio, cane!”, appellativo che al mio bassotto Nando giustamente non torna tanto bene, ma che da quelle parti sta per “bastardo”. Quanto di più educato e corretto si possa indirizzare allo “stragista in nome di dio”. Era il 14 dicembre 2008 e, alzandosi quella mattina con questo proposito in mente, il collega e compagno Muntather sapeva benissimo che sarebbe andato incontro alla ripetizione, e anche a qualcosa di peggio, di quello che già aveva subito per aver sfrucugliato gli occupanti e i trapanatori di partigiani e civili sunniti di obbedienza Moqtada. Infatti gli sgherri del bordello lo hanno subito massacrato a calci in faccia. Probabimente non immaginava che nell’Iraq liberato e rinato dell’immancabile futuro, quel 14 dicembre sarebbe stato poi festeggiato in ogni angolo del paese e che in quel posto ci verrà una sua statua con la dicitura “EROE DELL’IRAQ”…

Ora è in prigione. In quelle prigioni. Anche perché le sue scarpate erano il congedo non solo all’assassino seriale di massa, ma anche il sigillo iracheno al rifiuto del SOFA, il patto leonino tra padroni e servi per un ritiro-farsa degli occupanti entro il 2011 che lascia 50 basi, 50mila militari e 500 predatori multinazionali a guardia del paese frantumato e venduto. A ribadirlo ai torturatori marines e alle mignotte nei lupanari governativi della “Zona Verde”, ci sono poi state le piazze d’Iraq stracolme come non mai. Abbiamo udito milioni di altre voci riprendere e potenziare l’imprecazione di Muntather e rovesciarla dal dolore e dalla rabbia della Mesopotamia sulle coscienze dell’umanità. Ne hanno ammazzato più di un milione e mezzo, ne hanno fatti fuggire due milioni dal paese e altri due ne hanno spostati nel nulla della migrazione baraccata interna. Hanno stuprato e commerciato donne e bambini che, qui, nessuna occhiuta vindice delle donne conculcate da Nazinger e Ahmadi Nejad, si sogna di cagare. Con squadroni della morte di scuola israelo-persiana hanno assassinato l’intera classe intellettuale del paese insieme ai patrimoni di cui era custode. Hanno avvelenato fiumi e terre perché si portino lentamente via un popolo di troppo. Il migliore del Medio Oriente. Hanno fatto a 25 milioni di iracheni ciò che i maestri israeliani stanno facendo a un milione e mezzo a Gaza. Li hanno voluti seppellire sotto la letale coltre del silenzio internazionale, silenzio dei sinistri compreso. Poi sul muso di Bush e del mondo sono volate delle scarpe. Chi vivrà…Iraq!

Forse qui da noi, salvo Uruknet e questo blog, nessuno vi inviterà a sostenere l’impresa di questo iracheno augusto e coraggioso. Come non vi riferiscono, se non per trafilettare infastiditi su “terroristi Al Qaida”, dell’indomabile resistenza irachena. Quella che con gli Usa, dopo la carneficina del Surge del generale Petraeus, con i macellai in uniforme Usa ormai rintanati nei loro covi corazzati, sta decimando giorno dopo giorno, sia le forze surrogate dei mercenari, sia le milizie fantoccio incaricate di mantenere il paese nel tritacarne colonialista, ora manovrato dall’ Uomo Nero del Cambio. Non vi sarà chi di Muntather appenderà la gigantografia in Campidoglio, modello Sgrena o, addirittura peggio, la gaglioffa dama ex-prigioniera colombiana che, nello stesso giorno delle sante scarpe, proseguiva dal leccapiedi di “Che tempo che fa” la sua apologia del narcotrafficante fascista Uribe e dei suoi padrini Usa. Bravo il “liberatore” Uribe e fetenti i combattenti delle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane, FARC (sorvolando ovviamente, nella perorazione per gli “ostaggi”, sulle segrete della tortura in cui Uribe tiene 500 guerriglieri agonizzanti). Nessuno, vi inviterà a firmare l’appello per la liberazione di Muntather dal sequestro degli sgherri fantoccio. Neanche “Reporters Sans Frontieres” , troppo impegnati a prestarsi, per il guiderdone di qualche milione di dollari Usa, a diffamare Cuba o i palestinesi. Neanche le rispettabilissime nostre corporazioni associative e sindacali, nessun Comitato di Redazione, nessun velinaro dirittoumanista, tutti ancora presi dal lacrimare sulla fine della Politkovskaya e, quindi, della tossica disinformazione antirussa di questa operativa Cia, incaricata di guadagnare la Cecenia all’Occidente. Ma voi questa storia di un giornalista grande perché “scrive con le scarpe” ora la conoscete. Non c’è scampo per i giusti, i liberi, gli schifati: tocca firmare. Firmare l’”Appello dei 50.000 per la liberazione di Muntather Al Zaidi”, Eroe della Scarpa, Eroe Iracheno. Ecco qui.

http://www.ipetitions.com/petition/iwffomuntatharalzaidi?e

Il verminaio della “sinistra” ridicolmente pensa di pararsi il culo davanti all’uragano mafiofascista. E così stappa bottiglie di purulenze mediatiche e si inebria di bollicine di cerchiobottismo. Che si tratti degli schiaffazzi ai necrocrati dati da Muntather, un iracheno come dall’alto al basso li avevo conosciuti nei miei trent’anni di frequentazioni del più cazzuto dei popoli, da bilanciare subito con qualche reminiscenza sul “sanguinario Saddam”, o che si tratti della compunta critica al governaccio Karamanlis, che però si offusca alla luce delle banche incendiate da “anarchici” e “teppisti”. O, ancora, di mantenersi in prudente equilibrio, nel nome del più scriteriato antigiustizialismo, tra giudici venduti e giudici (Salerno) che prosciugando la fogna politico-giudiziaria di Catanzaro, tributano il sacrosanto riscatto a De Magistris, uno degli ultimi magistrati italiani non soggetto alla “dipendenza psicologica” ormai ontologica negli “arbitri” d’ogni tipo. E a questo proposito voglio spiegare ai tanti ortomarxisti cui fa senso la difesa della legalità “borghese”, che quella legalità, se non gliela avessero strappata a partire dal 1789 e a finire col 1917, gli iracheni di tutti i paesi, le classi subalterne, i popoli schiavizzati, ma anche le lotte dei partigiani e poi dei nostri comunisti, i signori della spada e della moneta non gliela avrebbero concessa mai. Ci hanno comunque rimesso. Tanto va difesa quella legalità che limita gli eccessi di padroni e sbirri, di scienziati pazzi superomisti che fabbricano Lodi Alfano e macellerie genovesi, quanto va offesa una legalità da Stato Guida e proconsoli ladroni, come oggi viene affondata da masse all’offensiva e trafitta da sassi, molotov e fiamme. E’ la Grecia del tirannicidio. Noi siamo il paese del vicario di Cristo. Né infrangiamo le tavole della legge del Signore, né difendiamo quanto di esse i nostri padri hanno saputo volgere a difesa di chi diritti ne aveva meno del popolo schiavizzato dai lama tibetani.


Qui succede un paradosso. Giornali obamisti, politovksayani, dalailamisti come “Il manifesto” e “Liberazione”, senza per una volta grilloparlare sulle manifestazione di forza resistente dei ragazzi “incappucciati” (grazie Angelo Mastandrea), denunciano l’ipocrita e codarda presa di distanza dei brezhnevcomunisti del KKE. Quel KKE, erede di “comunisti” che con il dittatore Papadopulos si dichiararono pronti a convivere, quel KKE che invece viene difeso appassionatamente da altre vestali del bolshevismo-per-scherzo che fanno proprie, di quel mucchio di opportunisti politically correct, gli anatemi contro i “provocatori, privi di ogni legame di massa, che stanno facendo il gioco della destra greca”. La sentite l’eco degli anatemi che, dal 1945 in poi, i collaborazionisti di “sinistra” vanno scagliando contro “avventuristi”, “provocatori”, “strumenti della destra”, per aiutare a tagliare le gambe e i propositi di chi si oppone ai regimi delle macellerie sociali con modi e mezzi che sfuggono al galateo della “dialettica democratica tra maggioranza e opposizione”? L’eco delle perorazioni disfattiste che vorrebbero preservare a questi compagni di merende e di banche la rendita elemosinata dal capitalismo a “oppositori” che stanno al gioco e si alleano contro gli intemperanti che il gioco lo buttano per aria. Un’eco che viaggia sul ricordo di tanti “provocatori” che facevano “il gioco della destra”, fin da quando resero i conti alle camicie nere, a Tambroni, ai capitalisti e politici delle stragi di Stato messi in crisi dal ’68 al ’77, mentre il PCI non c’era o, se c’era, dormiva. Anzi delazionava.

Ho avuto uno scambio con chi, addirittura dell’area PRC dell’”Ernesto”, presunta sinistra non-nonviolenta e antimperialista del partito, sparava in tutte le direzioni contumelie KKE contro i ragazzi che, con al seguito masse che il KKE si sogna, davano l’assalto alle basi della criminalità organizzata al potere in Grecia. Migliaia di persone che, per giorni e giorni, hanno tenuto testa agli sbirri di una classe dirigente tanto corrotta e predatrice da contendere alla banda del nostro guitto-mannaro il suo primato mondiale. Si preferiscono giornate festose e cortei educati tra tricche e ballacche, alla Cofferati o Veltroni, dove alle famose masse rossobandierate si possono raccontare due balle-placebo a innesco di una disperata autosuggestione, per poi rimandarle a casa cornute e mazziate. Vizio terrificante e inveterato, quello del togliattismo, inestirpabile come la gramigna nei campi, come tutto ciò che preferisce sopravvivere da saprofita. L’edera sulle giovani querce. A costoro rispondo con le parole di chi le battaglie di Atene le ha viste e fatte.
“L’assassinio di Alexis ha fatto esplodere la sommossa più grande del periodo dopo i colonelli. Abbraccia tutto il territorio ed è più vasta, più di massa, più decisa di quella del 25 maggio 1997, di quella del Politecnico dell’80, del movimento greco contro l’assassinio di Kaltezas nel 1985… E’ stata l’espressione dell’asfissia, della rabbia e dell’odio di un mondo intero, il mondo del precariato universale… Tra le migliaia di gente che scaglia sassi e riceve rivoltellate, che distrugge banche (e purtroppo, ma spiegabile, anche piccoli negozi) è coinvolta gran parte della nostra gioventù, precari e disoccupati, scolari e studenti, greci e stranieri… che trova sbocco al suo odio nei confronti degli sbirri e dei ricchi, simboli del potere, della ricchezza e del consumismo, ma anche di quanto desiderano e non possono avere.,.. Gran parte della sinistra radicale, benché contraria al “rompere” e “devastare”, non si è schierata con “l’ordine”, non ha condannato le violenze, è uscita per strada, ha manifestato insieme agli “incappucciati”, ha urlato “loro parlano di profitti perduti e danni, noi parliamo di vite umane”, ha capito che “l’azione precede la teoria” e si è contrapposta in maniera incondizionata alla crudeltà della polizia. Speriamo che questo continui…” ( DIKTIO, Rete per i diritti politici e civili). Non contate sul KKE, compagni, né sull’Ernesto, quello che, con la faccia come il culo, ti dice che fai “il gioco della destra” dopo aver giocato, lui, con la destra alla guerra in Afghanistan e Libano. Signori, di sommossa si tratta, non di scampagnata. “Noi che volevamo la gentilezza, non potevamo essere gentili…”

Contate sulle vostre pietre e sulle scarpe di Muntather. A volte basta il sasso di Balilla.

venerdì 12 dicembre 2008

BURN, BABY, BURN !




Possiamo facilmente perdonare un bambino che ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando gli uomini hanno paura della luce.
Platone



Il famosissimo titolo del brano jazz composto dal trombettista Norman Howard nei primi anni ’60 (“Brucia, ragazzo, brucia”) può essere letto come verbo intransitivo o transitivo. A me va di dargli entrambi i significati. Alla faccia di corvi, gufi, cuculi e uccellacci vari (chiedendo come sempre scusa agli animali per l’indebito morfismo), qui e in Grecia, che si affannano ad esorcizzare, da un movimento inatteso e che gli è scappato di mano, l'attacco a questure, carceri, banche, centri commerciali, negozi di lusso, Suv dati alle fiamme. Le metastasi della società. Lo stesso KKE (partito comunista detto “ortodosso” rispetto al degenerato, consociativo, bertinottesco Synaspismos, che però stavolta furbescamente si è accodato alle lotte) ), nel comunicato che qualcuno del PRC si è affrettato a diffondere anche da noi (mai perdere l’occasione togliattiana di “educare il pupo”), sentenzia che gli “incendi e le distruzioni non hanno niente a che vedere col movimento popolare di massa”. Si tratterebbe, ovviamente, di “provocazioni del governo”, per cui “tali azioni servono solo a legittimare la violenza e l’autoritarismo”. Del comunicatino di una ventina di righe, un terzo è occupato dall’ansiosa presa di distanza dalle “violenze” della rivolta che ha illuminato la Grecia dalla prima decade di dicembre. Il resto è un trito bla-bla-bla sulle virtù di un “movimento popolare e operaio”, sui meriti delle “lotte della gioventù” (inedita categoria politica, sostitutiva, parrebbe, della “classe”), e “l’intervento organizzato e di massa del popolo”, “un movimento che potrebbe aprire la via verso un cambiamento in favore di un potere popolare e operaio”. Belle parole, stereotipi polverosi da far venire il riflusso al più disponibile dei ragazzi oggi in campo. Del resto, il KKE le sue vergogne le aveva già esibite ponendosi nei confronti del criptoreazionario Pasok nella stessa posizione di Svendola nei confronti del PD. Che cosa abbia mosso i "rivoluzionari" dell'Ernesto (area del PCR) a dividere le merende con questi residuati del più incartapecorito conservatorismo resta un mistero.

Non va disconosciuto il ruolo del KKE nel tenere botta rispetto alla corruzione governista, revisionista e nettamente reazionaria di altre forze già di sinistra europee, dal nostrano svendolinottame alla Sinistra Unita spagnola, dal PC francese al detto Synaspismos, tutti figli del patetico “eurocomunismo” e nipoti della Terza Internazionale e di Togliatti-Berlinguer. Tutta roba già appesa all’orlo del cassonetto della storia. Né ci scordiamo, all’ombra dei turpi abbracci a Milosevic con cui Cossutta, famigerato fasullone e socio d’affari di Fininvest (vedi “Il rosso e il nero”, Edizioni Kaos), copriva le bombe sulla Jugoslavia dello scherano Usa D’Alema, i valorosi blocchi e i sabotaggi con cui il KKE si oppose ai transiti dei materiali Nato a sostegno dei narcotrafficanti secessionisti kosovari. Ma neanche possiamo non vedere l’abbagliante parallelo tra questo KKE, arrivato in ritardo e in mutande sulla scena della rivolta e senza la minima autorità per poterle suggerire alcunché, e l’esternità delle più o meno organizzate forze comuniste rispetto alla nostra Onda, ma soprattutto il PCI d’ordine che menava il can per l’aia sulla “lunga marcia attraverso le istituzioni”, mentre sosteneva il maglio che la borghesia abbatteva sul movimento rivoluzionario 1968-1977.

E’ tutta gente che sta fuori dalla storia. Sopravvissuti. Detriti spiaggiati e che ogni tanto vengono scossi dalle Onde e provano a galleggiarci.sopra. I compagni che buttarono per aria l’Italia della concertazione per “convergenze parallele” erano figli, naturali e storici, della Resistenza partigiana e di quella aggiornarono il discorso. Così gli insorti greci che da Atene a Creta, da Patrasso a Salonicco, hanno illuminato la notte planetaria accendendo la Grecia, sono e rivendicano di essere la reincarnazione degli eroi del Politecnico che, nel 1973, facendosi massacrare dai carri armati dei colonelli installati dalla Cia, fecero luce dopo sei anni di tenebre fasciste. E non si fecero paralizzare, neanche allora, dall’invocazione “amica” alle “manifestazioni pacifiche e ordinate”. Invocazione che, nei momenti che la congiuntura rende decisivi, è un’arma fin più insidiosa e perfida dei provocatori cossighiani con cui i regimi borghesi cercano di neutralizzare, satanizzandola, ogni insurrezione contro il loro despotismo..

Nel 2000, armati di molotov e pietre, e nel 2004, con i candelotti dei minatori, masse di indios e studenti cacciarono uno dopo l’altro i furfanti con cui la borghesia creola e i padrini Usa contavano di continuare il vampirismo sulla Bolivia. Ai mitra dei militari risposero con l’accerchiamento e il blocco della capitale. Perdettero 60 vite, ma gli Usa persero una colonia e si vedono oggi messi in un angolo dall’indio Evo Morales. Nel 2002 milioni di sottoproletari venezuelani scesero dai ranchos e occuparono il paese per riportare alla presidenza colui che un golpe Usa, affidato agli ascari creoli locali, aveva voluto spazzare via. Ci misero meno di due giorni. Quando la polizia sparò non si tirarono indietro. Risposero. Nel 2004 studenti, professori, piccola borghesia, intellettuali, paralizzarono Quito, la capitale dell’Ecuador. Alla sanguinaria repressione del finto indio e vero fantoccio Usa, Lucio Gutierrez, risposero con le solite bocce, i soliti sassi e, soprattutto, non mollando le posizioni per mesi. Invasero e occuparono i palazzi del potere. Dettero il via al grande cambio in atto sotto Rafael Correa. Natale 2000: “argentinazo”. Studenti, madri e nonne di desaparecidos, moltissimi operai, grandi battaglioni di quel 60% di argentini che vivano sotto il livello di povertà nel paese più ricco e depredato del continente, occuparono le città, le fabbriche (poi mantenute sotto controllo operaio nella sistemazione riformista di Kirchner), le scuole e università, morirono e risposero alla stessa maniera dei giovani greci del 1973 e del 2008 (che, come loro, sanno, meglio dei corvi, individuare e neutralizzare i provocatori). Eliminarono dalla scena in due settimane cinque gaglioffi alla Berlusconi. Con un’intifada dopo l’altra, tra il 1985 e il 2006, la resistenza palestinese impose al regime e popolo più razzisti del mondo (onore ai pochi ebrei refusenik militari o civili) una prima volta l’affannosa farsa degli accordi di Oslo e, una seconda, la quasi bancarotta dello Stato sionista per fuga di capitali, inaridimento e reversione del flusso d’immigrazione, collasso economico, sollevazioni sociali. Poi vennero in soccorso ai nazisionisti Abu Mazen e la non violenza. Venne anche un concorso mondiale di complicità criminale nel nome dell’olocausto, onde agevolare quello nuovo, di olocausto. e salvare un modello da utilizzare contro ogni pretesa di giustizia ovunque i miliardi di escreati della crisi capitalista e della rivalsa imperialista osassero avanzarla.
(Non ci credete? Guardatevelo nei miei documentari, a partire da “L’asse del bene”. E scusate lo spot).

Gli studenti, gli “alternativi” del quartiere-fortino ateniese Exarchia, la gente-contro, i precari, hanno risposto col fuoco all’incenerimento del loro futuro, a un berlusconismo tanto fascistizzante, feroce, mafioso e corrotto, quanto il nostro. Hanno eretto barricate lanciato cose contro chi li ha rinchiusi dietro a reticolati di miseria, ignoranza, depravazione culturale, repressione. La sanità pubblica smantellata, l’università e le scuole ridotte come da una Gelmini in overdose, il precariato come struttura portante delle ruberie e prevaricazioni padronali, la desertificazione dell’habitat urbano e naturale, la dittatura dei delinquenti di banca, rendita e speculazione. Dai gigolò del capitalismo imperialista, l’argentino Menem e il greco Karamanlis, a Sarkozy e Aznar, da Blair a Lucio Gutierrez, dal rinnegato serbo Tadic al troglodita criminale kosovaro Thaci, ai malviventi despoti “democratici” di Pakistan, Afghanistan e India, ai compari corrotti e corruttori Olmert e Abu Mazen, al burattino iraniano-statunitense Al Maliki in Iraq, fino al guitto-mannaro di estrazione piduista e mafiosa di casa nostra, con il suo corredo inciucista di centrosinistra, è tutta uno spurgo, camorristicamente liberomercatista, della fogna sociale borghese nelle sue anse terminali. Anse nelle quali confluiscono, per formare un’unica cloaca maxima, criminalità “illegale” e criminalità legale, quella del Lodo Alfano, del massacro di magistrati come De Magistri e Forleo (quando toccherà al torinese Guariniello?), dello sterminio di popoli innocenti, dell’accordo sul Welfare, della legge 30, dell’ambientalismo alla Matteoli e Prestigiacomo, della polizia bastonatrice, torturatrice e sparatrice di Scajola, Pisanu e Maroni, dei banchieri grassatori e loro tentacoli politici, dei delocalizzatori in paesi schiavisti, dei manovratori di teppisti fascisti, dei fucilatori di giusti come Giorgiana Masi, Francesco Lorusso, Walter Rossi, Rudi Dutschke, ieri, e di Carlo Giuliani, o Alexis Gregoropoulos di Atene, 15 anni, o Federico Aldovrandi, oggi. Tutti, e tanti altri, eliminati innocenti nella guerra totale che la criminalità gerontocratica borghese conduce contro i giovani che non riesce a cloroformizzare e integrare. Non per nulla aveva elaborato e diffuso il transfert dei "comunisti che mangiano i bambini"

I ragazzi greci del Politecnico, i greci derubati e turlupinati dell’intero paese, come i nostri studenti e precari e chi gli è affine, come nove decimi dell’umanità, hanno al collo gli artigli di cannibali psicopatici che un po’ si sbranano fra di loro per il bottino di turno (le guerre mondiali), un po’ si uniscono per avventarsi compatti sulle vittime e, intanto, tutti assieme soffiano sulla miccia che disintegrerà il pianeta. Hanno subito pestaggi e assassinii di Stato, questi resistenti, questi nuovi partigiani costretti a lottare nel gelido isolamento delle sinistre normalizzate, arresti ed esilio di decine di migliaia, tortura, squadracce fasciste (assistite dall’internazionale nera capeggiata dai nostri Fini, Delle Chiaie, Servizi Segreti), ruberie capitaliste mozzafiato, annichilimento di ogni prospettiva di dignità e vita. Nel novembre del 1973 riscattarono la Grecia. A costo di tutto, dal Politecnico iniziarono una battaglia che cancellò vite, ma innescò un’insurrezione di popolo e la fine di una dittatura sponsorizzata dalla solita “più grande democrazia del mondo”. E ora qualcuno qui e qualcuno in Grecia, sporgendosi dalla finestra, invita a manifestare ordinati, a espellere gli “elementi violenti”, a sfilare in pacifici cortei. Dov’ è il martello che spiaccicò un grillo parlante che, con l’a noi familiare terrorismo psicologico della paura, voleva impedire a un nasuto ribelle di perseguire il suo destino rivoluzionario?

Ho un ricordo personale dell’Atene sotto i colonelli, quando ero inviato del settimanale comunista "Giorni-Vie Nuove" e di quello lottacontinuista "ABC". Nel 1970, in piena dittatura di questi subumani dal cranio pelato, la paura, diffusa con i mezzi più efferati e assecondata dal perbenismo opportunista delle sinistre “non violente”, già veniva scheggiata da mille voci e cospirazioni annodate al centro antagonista di Exarchia. Ci si riuniva nei rifugi dei clandestini, sfuggiti alla deportazione e al carcere, scantinati, tuguri, retrobotteghe. Si organizzavano volantinaggi lampo in centro, sugli autobus, all’università. Si colpiva col fuoco qualche simbolo della tirannia, i bersagli di oggi, le centrali del capitale e dell’oppressione, si facevano lampeggiare scritte insurrezionali sui muri del potere, sotto il naso degli aguzzini in uniforme. Il terrore che questi giannizzeri Nato avevano diffuso in ogni cellula della società, veniva crepato nelle bettole e nei ritrovi notturni da canti nei quali esplodeva, spesso accompagnata da lacrime, la parola proibita: elefteria, libertà, magari difesa da metafore storiche come Bruto o Leonida, o naturalistiche come un volo di gabbiano. Ma tutti capivano e l’idea viaggiava. Ogni tanto qualcuno mancava alle riunioni e, o riappariva, o lo si doveva dare per perduto nelle segrete dei golpisti. C’era una resistenza invisibile e imprendibile, ma tessuta stretta come le fibre di un giubbotto antiproiettile. Calda, affettuosa, perfino allegra, attenta, seria. Come eravamo noi negli anni del coraggio.
Il sisma che ha colpito questa terra nel dicembre del 2008 trae il suo impulso da quel tessuto. E anche dal ricordo di una resistenza anti-nazifascista, poi diventata lotta armata per il socialismo tra il 1947 e il 1949. Chi ricorda il comandante guerrigliero Marcos, impiccato dagli inglesi? Un nome sfigurato in Chiapas. Resistenza e lotta tradita come da noi, fascisti e collaborazionisti amnistiati e riciclati. E, pure da noi, senza i partigiani, senza l’insurrezione di Genova, senza Reggio Emilia, Avola, Battipaglia, difficilmente avrebbe avuto quella forza e quella chiaroveggenza politica il movimento ’68-’77. A sua volta, l’Onda studentesca di oggi non avrebbe facilmente prodotto una tale maturità di obiettivi, una tale consapevolezza della posta in palio e della natura del nemico, un così tenacemente perseguito collegamento con le altre aree di potenziale resa dei conti, se non avesse albergato nella memoria individuale e collettiva il seme di quella lotta. Han voglia a esorcizzare il richiamo al terrorizzante ’68, insistere sulle “diverse condizioni”, propalare lo scaltro quanto insensato slogan di destra “Né rossi, né neri, solo liberi pensieri”, inalberato da qualche utile idiota, se non da amici del giaguaro.

La celere di Scajola e Maroni è quella di Scelba, Rumor, Taviani, solo un po’ più ideologicamente educata al sopruso e garantita dall’impunità, le squadracce fasciste non divergono di una jota da quelle che sparavano ai compagni nelle scuole, o allestivano stragi pro-capitale e pro-Washington. La P2 allora complottava, oggi governa. E la differenza tra Berlusconi e Andreotti è solo quella tra un guitto mannaro e un mannaro prete. I padroni allora scappavano con i soldi della chimica e dell’acciaio, oggi scappano con i soldi dell’acciaio, dell’alimentare, dell’Alitalia. Allora seppellivano terre e schiacciavano vite sotto automobili a benzina, oggi intendono seppellirci e schiacciarci sotto automobili elettriche o a idrogeno. Gli studenti hanno capito come funziona il sistema come lo capirono i loro predecessori e ne vogliono un altro che assomiglia a quello cui si mirava sette lustri fa come uno sfilatino a una pagnotta. Sempre farina è. Magari quella di allora era più raffinata, erano più presenti i bravi macinatori: Marx, Lenin, Gramsci, i Quaderni Rossi, la Scuola di Francoforte. Ma saranno le contraddizioni della crisi a riportarceli inesorabilmente sotto. E’ passato un tempo che, nella storia, equivale a un battito di palpebra. Del resto, in Bolivia, non ha vinto il Che Guevara neanche 40 anni dopo l’illusione Cia di averlo fatto fuori ? Attenzione a quelli che vogliono farvi credere alle cesure storiche, che vogliono recidere i corsi d’acqua alla sorgente. Non sono né scientifici, né innocenti.

C’è chi si riempie la bocca di Lenin per ricondurre il reale di ogni momento alle categorie che, secondo lui, il padre della rivoluzione socialista avrebbe determinato una volta per tutte. Il costante ricorso alla “classe operaia” come perenne mitico “soggetto rivoluzionario”, a prescindere dallo Zeitgeist che esprime e dalle ambizioni che nutre, ne è una delle più ottuse manifestazioni. E se gli operai non si muovono e magari votano Lega o Veltroni, che nessuno si muova. Ormai da decenni in Occidente il potenziale rivoluzionario sta nei giovani impegnati nella formazione, direi più autoformazione che altro, negli studenti, nei precari con gradi di istruzione, negli espulsi dai processi economici e politici, nelle banlieu nostre e del mondo. A volte avanguardie operaie si accodano e contribuiscono, quelle che riescono a sottrarsi al combinato infernale del disarmo unilaterale, politico e culturale, operato da PCI e succedanei, del depistante luxurianismo dirittoumanista, e della coppia onanistico-repressiva Raffaella Carrà-Maroni. Come ricorda Gigi Roggiero, on s’engage et pui… on voit, ci si impegna e poi… si vedrà, era il motto napoleonico con cui Lenin spiegava la rivoluzione d’Ottobre. Si parte, dove si arriva lo si vedrà. Con il che sono sistemati tutti i venerandi maestri della nostra sinistra che, sprofondati in poltrone al vinavil, da anni ci tirano addosso “ i tempi non maturi per la rivoluzione”. E intanto la rivoluzione la fanno a ritmo di compressore i padroni, la loro. Non è che c’è un Lenin avventurista, che non credesse alla meticolosa organizzazione della rivoluzione. Ma non c’è neanche quel Lenin da “sala d’aspetto della Storia” (sempre Roggiero) che ci lascia lì inerti davanti a eventi e sconvolgimenti che non corrispondono ai libri sacri. Non c’è un Lenin storicista e determinista. L’attesa delle “circostanze utili” non ha neanche per un momento rallentato né gli eventi del ’17, nè la fresca dinamica degli studenti italiani o greci, o, prima, di quelli francesi e cileni. “Il nodo è organizzare le condizioni di possibilità affinchè forze eterogenee si compongano su una linea comune”. Ne consegue che la centralità delle contraddizioni e dei relativi soggetti rivoluzionari è continuamente ridefinita dalla lotta sui rapporti di produzione e riproduzione. Lenin è materialista e, di conseguenza, teorico dell’analisi e azione determinate dalla congiuntura. E nel variare della congiuntura va collocata la mutabilità della prospettiva rivoluzionaria. La catena va attaccata là dove il capitale è più vulnerabile e la classe è più forte nella contingenza. Stare fermi e invocare una classe operaia addomesticata e ancora abbarbicata alla salvaguardia della sua cittadinanza di seconda, terza, classe, in un’ordine che va da 1 a 5, mentre la contraddizione principale e le lotte relative si aprono nell’ambito dell’istruzione, del territorio, dei disoccupati o precariamente occupati, dei pensionati e anche - che non mi si fulmini – della legalità, significa detestare la rivoluzione quanto i compari assisi nell’emiciclo a fianco.

Forse questi grandi movimenti-sommovimenti non avranno durata e conclusione vincente. Qui, nella terra di Dioniso e Odisseo, o da noi, o altrove. Non subito almeno. Mancano, ahinoi, grazie a una classe politica codina, vile, vorace e completamente contraffatta, grazie a gruppuscoli residuali dotati di autoreferenzialità convegnistica e inanità operativa (striminzito lascito di PCI e Autonomia Operaia), i binari che sostengano l’indirizzo e delineino le mete di questo formidabile treno d’autunno. Avremo il tempo di metterli giù, saldati dalle traversine del mutuo soccorso tra conflitti, prima di deragliare, o finire sul binario morto? Per il Che condurre una battaglia era già vincere. E lo ha dimostrato. Certamente quello che è successo e va succedendo tra assemblee, piazze, atenei, gas chimici CS banditi dalla legge, pestaggi e fucilazioni, ha aperto fessure come dell’acqua in una diga che non riesce più a contenerla. Sono nate coscienze e, se il cielo vuole, anche braccia e pugni. Non sarà facile ammazzarli tutti, o tutti bertinottizzarli.

Comunque, In altri tempi non avremmo spedito in Grecia messaggi di simpatia corredati di raccomandazioni a comportarsi bene. In altri tempi ci saremmo andati, in Grecia. Come gli antifascisti andarono in Spagna, come gli antisionisti andarono tra i palestinesi, come Lotta Continua andò in Portogallo, tra i garofani. Corsi storici. A quando i ricorsi?

giovedì 4 dicembre 2008

11/9 -26/11: DOPO IRAQ E AFGHANISTAN, INCASTRATO IL PAKISTAN






Pensierino n.1: La comunità internazionale chiama, l’Italia di Maroni risponde. La combriccola dell’11 settembre combina un quarantotto antislamico a Mumbai? A Milano la Digos incastra due operai marocchini un po’ squinternati e gli appioppa un piano per far saltare per aria mezza Lombardia. La Lega, Maroni e tutto il marcio xenofobo del paese si possono scatenare al pari del modello Usa. Si parva licet….
Pensierino n.2: In Thailandia una massa di giovani, studenti, popolo, incazzata occupa la capitale, i palazzi governativi, gli aeroporti e non si muove più. Così fecero in Bolivia, Caracas, Ecuador. Così si cacciano i regimi di merda, tipo quello del guitto-mannaro.
Pensierino n,3: La magistratura di Salerno sconfessa e sputtana il CSM che lo ha trasferito, Prodi, Mastella e tutta la banda di euroladri calabresi coperti da giudici corrotti che lo avevano demonizzato, e riabilita Luigi De Magistris e le sue inchieste “Poseidone” e “Why Not”. A quando la vittoria anche di Clementina Forleo e lo smerdamento definitivo di D’Alema? E i sinistri dove stanno? Ululano al “giustizialismo”?
Pensierino n.4: La Chiesa cattolica blocca la depenalizzazione dell’omosessualità, avallando pene varie e lapidazioni in una cinquantina di paesi. La Chiesa cattolica si oppone alla convenzione ONU sui diritti dei disabili perché non vi si condanna l’aborto. La Chiesa cattolica, con Nazinger e senza Nazinger, si conferma MALE ASSOLUTO.

E’ una società decerebrata quella che considera il fallimentare imbecillone con i baffetti, massimo solo per spocchia e cinismo, un grande statista; o il camaleonte bianco/nero di Chicago, spedito raccomandato con ricevuta di ritorno a gabbare i disperati, un campione del "cambiamento"; o il monaco zafferano della dinastia più schiavista del mondo, intimo di Bush e inghirlandato da Bertinotti, una vetta spirituale e non violenta della politica; o la pennivendola russa, dagli schiamazzi ceceni diffusi su radio Cia, una giornalista indipendente; o l’omofoba madama del più grande postribolo gay e pedofilo della storia, una guida morale dell’umanità; o il Darfur destabilizzato da secessionisti prezzolati da USA-UE, e non l'Iraq o la Palestina, mattatoio di Stato

Ripeto ancora una volta l’antico adagio: quando il coro è unanime da una sponda all’estremo opposto, diciamo dallo squadrista “Libero” al “quotidiano comunista il manifesto”, è la destra a tenere la scure per il manico e la sinistra a accoglierla festante nelle sue viscere. Non appena la triplice terrorista Usa-UE-Sion aveva presentato, tra tamburi e fanfare, la prima del Kolossal “Islam, Al Qaida, Pakistan”, la proiezione è stata ripetuta su tutti gli schermi del circuito politico-mediatico mondiale, cinema parrocchiali e pensosi cineforum della sinistra compresi. Quanto alle sinistre disperse in partitini e gruppetti e cani sciolti, geopolitica, imperialismo, guerra infinita, Iraq e Cuba, sembrano finiti nei bauli della soffitta. C’è ancora chi esercita meditazioni, armi della critica e corde vocali su questi ostici paroloni? Non ci si capisce nulla, si rischia di inimicarsi qualche compagno di cordata, meglio prendersela con le perfide idiozie dei burattini a portata di mano che con i burattinai troppo in alto.

E così, dalle teodem islamofobe Sgrena o Forti del “manifesto” agli ascari imperialsionisti del “Corriere”, è tutta una geremiade sull’India, vittima democratica del terrorismo islamo-pachistano. L’inviata speciale Marina Forti, corifea degli interventi imperiali purchè “umanitari”, zeppi di ONG, antiburka e filo-gay, riesce a trasformare un terrorismo interno indiano, al 90% di fuoriditesta indù, in cento righe di terrorismo islamico e dieci di carneficine induiste. Non si conduce forse una guerra infinita e globale all’”integralismo islamico”, odioso al papa quanto a Wall Street per la sua irriducibilità all’ordine della “comunità internazionale”, mentre l’induismo, se a volte un tantino esagitato, è pur sempre la religione ufficiale della democratica India, come del santone Ghandi? Perché perdere tempo ascoltando anche solo un fiatino di quello che dicono individui inattendibili come Fidel, o Saddam, o Milosevic, o Omar el Bashir, o le Corti islamiche in Somalia, quando la “comunità internazionale”, quel consesso del centesimo ricco, evoluto, bianco, cristiano dell’umanità, ha già scritto il breviario di orazioni valide per tutti? E, dunque, cosa ci attardiamo a dar retta a selvatici burkaioli come gli analisti pachistani che vaneggiano di “sionisti indù”, di Cia e Mossad, e che si permettono di disintegrare la solidissima versione dei dieci ragazzotti pachistano-islamici venuti in gommone da Karachi, per mettere a soqquadro una decina dei luoghi più protetti della capitale finanziaria dell’India? Gommoni e navi appoggio passati indenni sotto i mille occhi e le mille orecchie dell’area, tra Medio Oriente, Golfo Persico, Mare Arabico, Iran, Afghanistan, più militarizzata e sorvegliata dell’universo mondo. Perché dovremmo riferire le voci false e tendenziose che denunciano l’esotico dialetto indù, tutto fuorchè pachistano, in cui gli attaccanti parlavano tra di loro, o che ne annotano le bandane gialle, tipiche delle bande sioniste indù, ma indossate da nessun musulmano? Perché dare ascolto alle teorie complottiste per le quali i dirigenti dell’anti-terrorismo indiano, uccisi nei primi cinque minuti dell’operazione, ora non potranno più concludere le indagini, ormai in dirittura finale, sul terrorismo domestico di destra e, in particolare, sulla strage di centinaia di musulmani nell’assalto al treno Samjhauta Express? E figurarsi se ha una qualche credibilità la funambolesca speculazione per cui le varie componenti dell’elite indiana – tutte care agli Usa e a Israele, ma il partito di estrema destra BJP un po’ più del Partito del Congresso – dovevano mettere la sordina alla crescente destabilizzazione della nazione per opera sia di estremisti religiosi, sia delle formazioni partigiane maoiste, sia della rabbia di milioni di contadini spodestati da latifondisti, speculatori e multinazionali, con suicidi di massa, sublimando ogni cosa nel patriottismo antislamico e antipachistano?

Ma non di roba interna soltanto si tratta. Anzi. Si potrebbe dire che gli obiettivi interni al subimperialismo capitalista indiano sono solo un effetto collaterale. Scommettiamo che dietro ci sono i soliti, quelli che praticano il terrorismo di Stato, a scopo di repressione interna e di conquista imperialista esterna? Così fin dai tempi dell’incrociatore Usa Maine, autoaffondato nella baia dell’Avana per dare la colpa alla Spagna e sottrarle Cuba, dell’affondamento della flotta Usa a Pearl Harbour, consentita ai giapponesi per avere l’alibi dell’entrata in guerra, del finto attacco vietnamita nella Baia del Tonchino, servito a radere al suolo Vietnam, Laos e Cambogia, dell’11 settembre 2001 che sdoganava l’assalto al mondo da parte dei nazisionisti, delle carneficine nei villaggi palestinesi bruciati dalle bande sioniste Stern e Irgun per far posto alla conquista USraeliana? Qui abbiamo un’India, incazzata e ripetutamente in guerra con i vicini musulmani del Pakistan fin da quando non le è riuscita a incorporare il Kashmir islamico al momento della divisione nel 1948. Un’India che recentemente ha concluso un accordo per lo sviluppo nucleare con quegli Usa che per impedire l’analogo sviluppo in Iran gli minacciano una casamicciola con la ripetitività del rosario. E abbiamo un Pakistan, invece, che da qualche mese è bersaglio di sfracelli bombaroli statunitensi perché non si attiva abbastanza a liquidare quell’ Al Qaida che è la denominazione sociale del Pentagono per scatenare nuovi episodi alla Maine, alla Pearl Harbour, all’11 settembre. Lo stesso Pakistan che il buon Obama minaccia di bombardare insieme all’Afghanistan (troppi musulmani in giro), fin da quando era un bebè nelle classi differenziali dei candidati presidenziali. Lo stesso Obama che, quando New Delhi dichiarava già accertata la matrice islamo-pakistana dell’operazione mentre hotel, centri commerciali, stazioni e centri ebraici (non potevano mancare) avevano appena iniziato a bruciare, rispondeva che “le nazioni sovrane hanno il diritto di difendersi” alla domanda se l’India poteva permettersi di bombardare campi terroristici in Pakistan come facevano gli Usa.

E qui qualcuno avrebbe potuto riandare alla magica tempestività con cui a Washington si proclamava Al Qaida l’attentatrice alle Torri Gemelle, prima ancora che la polvere delle esplosioni si fosse posata su Manhattan, e con cui si dettero i nomi del “19 dirottatori arabi” (6 poi ricomparsi in vita), senza aver neanche ancora trovato il passaporto intatto di Mohammed Atta e le valige degli attentatori piene di “prove” scordate in macchina, no in aeroporto, no in autonoleggio , no nel deposito bagagli. E cosa ci suggerisce la citazione “volevamo un massacro di ebrei” attribuita dalla solita fonte anonima all’unico superstite di un gruppetto opportunamente eliminato, proprio come successe agli indiscutibili attentatori della stazione di Madrid dell’11 marzo 2005? E la reazione del terminator Olmert: “Difenderò gli israeliani in ogni parte del mondo”? Suggerisce forse la parola d’ordine “largo al Mossad”? E’ alla luce di queste approfondite ricerche che “il manifesto” può tranquillamente titolare “Erano tutti pakistani i terroristi di Mumbai” e, con piglio accoratamente granguignolesco, “La scia di sangue del terrore da Karachi al ventre dell’India” ? Non si deve fiancheggiare così il presidente eletto del “cambiamento”, del quale vengono definiti simpaticamente “moderati” i compari di brigantaggio bellico neocon come il confermato ministro della difesa e dei massacri iracheni, Gates, il consigliere della Sicurezza Nazionale, Jones, comandante dei marines, il ministro della Homeland Security, Janet Napolitano, che i messicani trucidati sul Rio Bravo ricordano come fautrice di duemila kilometri di muro tra i due paesi, o l’ultrà sionista israeliano Rahm Emanuel, capo di tutta la banda? “Una squadra di prima classe” secondo l’altro ultrà guerresco, Joe Biden, vicepresidente designato, come condivide, senza nulla aggiungere, il corrispondente Bosco Bortolaso. Roba da far rodere d’invidia il noto Magdi Allam, fondatore del partito “Protagonisti dell’Europa Cristiana”, a umiliazione di Giuliano Ferrara e Oriana Fallaci, dopo essersi guadagnato dal Nazinger la nomina a Crociato al merito delle sue puttanate antislamiche. C’è da far inorgoglire lo standard aureo del giornalismo internazionale, il “New York Times”, di nuovo, dopo i ripensamenti inflittigli dalla catastrofe irachena, capofila della campagna di guerra, stavolta contro il Pakistan: “E’ altamente probabile che il prossimo attacco terroristico di grande portata contro l’Occidente venga programmato da estremisti in Pakistan… Pensate che il presidente Ali Zardari ha appena inserito nel suo gabinetto due uomini che starebbero bene in un regime Taliban”. Mica vogliono male al Pakistan! Elementare, Watson.

C’è chi, a sinistra, dalla montagna di cadaveri ammucchiati dall’Occidente cristiano, satanizza tout court l’intero Islam, “religione di morte e di sopraffazione”. C’è chi, con pietas cattolica, come quelli dell’agenzia “Lettera 22”, implora di “evitare che il qaedismo recluti disperati in cerca di riscatto e di lavorare sulle condizioni locali in India come in Pakistane e Afghanistan”. E ci sono i temerari, veri anticonformisti, gente tipo Tavola della Pace, che alle cattiverie Usa attribuiscono quel “rigoglio di risentimento che porta i popoli ad abbandonarsi alle efferatezze del terrorismo”. Vigliacco se ce n’è uno in tutta questa combriccola che guardi alla storia, alle abbaglianti evidenze, alla logica aristotelica del cui bono, di chi ne trae vantaggio.

L’Iran ha cantato all’unisono con i presunti nemici statunitensi la canzone dell’operazione terroristica pachistana. Socio di USraele nell’obliterazione dell’Iraq, è alleato del fantoccio amerikano Karzai in Afghanistan e, dunque, nemicissimo della Resistenza. Karzai, proconsole di un paese occupato e predato dall’Occidente per posizione geostrategica e profitti da droga, è nemico del Pakistan dove, nelle aree tribali del Nord Ovest, si rifugiano i resistenti afghani, Islamabad compiacente o no. Nemico storico del Pakistan nucleare, anche perchè riferimento per la minoranza di 180 milioni di perseguitati musulmani in India, è l’India nucleare, Kashmir o non Kashmir. Il Pakistan e gli Usa sono “alleati”, anche se gli uni bombardano l’altro. Ma il Pakistan è soprattutto amico e gran socio economico della Cina, che anch’essa ha un contenzioso con l’India su pezzi di Kashmir. L’India è il più potente alleato degli Usa nell’area che serve all'accerchiamento di Cina e Russia. A tale scopo servono anche Afghanistan e il riottoso e tumultuoso Pakistan, che hanno il plusvalore di essere portale e ponte tra gli Usa e le ricchezze energetiche dell’Asia centrale da strappare all’influenza russa. Se, dopo l’Afghanistan desertificato (salvo per l’oppio con i cui proventi si scalfisce un poco l’immenso debito Usa), ma di cui non si riesce a venire a capo, si riuscisse a fare a pezzi anche il Pakistan, con una guerra e soffiando su conflitti tribali, etnici e intemperanze religiose (nel Beluchistan già operano secessionisti alla kurda irachena), si toglierebbe di mezzo un punto di resistenza della Cina, ma anche uno Stato nazione imprevedibile e inaffidabile, con tanto di bomba atomica. E se da una guerra indo-pachistana ci dovesse rimettere un po’ anche l’India, poco male. Meglio ridimensionare questa tigre asiatica, non si sa mai. Vale sempre la massima di Kissinger per il conflitto Iraq-Iran: “Preferiamo i mullah, ma che si dissanguino fra di loro”. Il sangue, poi, lo beviamo noi. Quest'ultima l’ha solo pensata.

Col pretesto di combattere il “terrorismo”, da sei mesi gli Usa lanciano spietati attacchi oltre confine in Pakistan, decimandone le popolazioni civili. Il fido vassallo Musharraf è stato spazzato via dalla collera popolare. Qualcuno ha tolto di mezzo il surrogato affidabile Benazir Bhutto. Sopravvive il regime debolissimo del principe consorte, Ali Zardari, in balia di forze in competizione tra loro (600 cristiani massacrati dagli indù due mesi prima di Mumbai, 2500 musulmani bruciati vivi nel primo incidente del 21° secolo, stupri etnici di kashmiri e Dalit, la sottocasta, da parte degli indù come se piovesse), e galleggiante su una massa di popolo che, come un sol uomo, detesta gli Stati Uniti. Sono tutti sunniti. Siccome per definizione a priori gli attaccanti di Mumbai sono di Al Qaida, o della succedanea Lashkar-e-Taiba (che però ha smentito, mentre i combattenti per una causa rivendicano le loro azioni), e siccome Al Qaida è tutta sunnita, wahabita, e siccome i pachistani sono sunniti quanto i taliban, ecco che l’equazione è completa. Condoleezza Rice si precipita in Pakistan e ribadisce le accuse indiane totalmente prive di prove: i terroristi li avete addestrati qui e o li catturate o son cazzi. L'astuto "manifesto" interpreta l'intimazione come "acqua getta sul fuoco". Un plusvalore a uso interno arriva dalla notizia che due degli attaccanti uccisi erano pakistani, ma di cittadinanza e origine britannica. Si rinfresca la psicosi antislamica nel Regno Unito, utile all’ulteriore persecuzione di immigrati e alla liquidazione delle libertà democratiche. A sua volta, il governo indiano, pressato da conflitti confessionali e sociali intestini in continua espansione, ha modo di adottare “misure d’emergenza”. La fascistizzazione si estende al subcontinente asiatico. Indispensabile per tempi di crisi da far pagare ai poveri.

Proviamo a considerare i tre elementi di Aristotele per capire il reale: mezzi, metodi e motivazioni. Da sempre la macchina militare più potente del mondo ha i mezzi per armare gruppi come questo, di solito chiamati “squadroni della morte”.La storia trabocca di esempi in cui Cia e Mossad usano il metodo di impiegare surrogati per consentirgli di attaccare nemici. Pensiamo al terrorismo che rovesciò il premier nazionalista iraniano Mossadeq, ai mujaheddin afghani che cacciarono i sovietici, alle bande armate georgiane lanciate all’attacco dell’Ossezia russa. Per occultare le proprie motivazioni di sfasciare il Pakistan utilizzando l’India, gli ascari afghani e l’Iran, come chiaramente anticipato da Obama e dal vice Biden, tocca spostare l’attenzione da se stessi e creare un contenzioso tra India e il paese da colpire. Se militanti antindiani, come quelli designati dall’universo mondo, volessero attrarre l’attenzione su di sé e promuovere consenso, tutto farebbero fuorchè sterminare civili innocenti. Sul posto si sono immediatamente avventati forze speciali israeliane e l’FBI. Motivazione: indirizzare le indagini nel senso voluto. Come nel caso delle Torri Gemelle, attacchi “pachistani” di Lashkar-e-Taiba erano stati anticipati da numerosi avvertimenti dei servizi Usa e indiani. Si accetta il contraccolpo dell’inefficienza pur di avallare la pista voluta.


Ma le inefficienze incomprensibili sono anche altre: gli alberghi a cinque stelle di Mumbai sono difese da vigilantes dentro e fuori. Tutti svaporati. Negli alberghi ci sono telecamere ovunque, ma non hanno visto niente. L’esercito indiano, uno dei meglio addestrati e moderni, non è riuscito a intervenire, nonostante gli attacchi non fossero nemmeno simultanei e gli assalitori corressero da un obiettivo all’altro, si dice, per poi rinchiudersi nel hotel. Chi è che si attrezza per atti terroristici ovunque gli pare opportuno? L’ex-ministro della difesa Usa, Donald Rumsfeld, crea un’ organizzazione con il compito di compiere atti terroristici contro il suo e altri paesi. Lo conferma il “Los Angeles Times” pubblicando un documento segreto del Defence Science Board (Comitato scientifico della Difesa) che istituisce il P2OG (Proactive, Preemtive Operations Group: Gruppo per le operazioni attivanti preventive). Suo compito: attuare missioni segrete finalizzate a “stimolare reazioni” da parte di gruppi terroristici, provocandoli con attentati e assassinii a commettere atti di violenza onde consentire “contrattacchi” delle forze Usa. A questo fine si devono utilizzare i metodi della “copertura e dell’inganno” (cover and deception) e operazioni militari segrete che deliberatamente fomentino stragi di innocenti. Non è solo che combattere il terrorismo provocandolo ed esercitandolo ci fa entrare nel regno della follia criminale. Qui si tratta di utilizzarlo – facendolo o provocandolo – allo scopo di promuovere le ambizioni geopolitiche dell’elite statunitense e occidentale. Il programma del Pentagono afferma – e Obama lo ha ribadito giorni fa – che è a rischio la sovranità dei paesi che albergano terroristi. Basta dunque individuare zone di malcontento, infiltrarci i propri provocatori (come insiste il famiglio Cossiga), chiamarli con una sigla qualsivoglia purchè islamica, e consolidare i motivi per abbattere un governo e polverizzare un paese. C’è, a questo proposito, un esempio agghiacciante, uscito grazie al freedom act dalle tenebre del segreto di Stato Usa: l’Operazione Northwoods contro Cuba, pianificata dal Pentagono e sospesa da Kennedy (che poche settimane dopo veniva ucciso, secondo i dati più attendibili, dalla mafia cubana). Prevedeva il bombardamento della base di Guantanamo da parte di finti cubani, attentati terroristici finto-cubani negli Usa contro obiettivi governativi e privati, un aereo charter pieno di studenti Usa in volo verso il Centroamerica che, sopra Cuba, sarebbe stato abbattuto da un finto Mig cubano. Casus belli immediato.

E’ evidente che gli Usa vogliono trascurare un Iraq creduto definitivamente debellato e affidato alla cogestione fantocci iraniani-fantocci Usa e a furti petroliferi garantiti da sottopancia curdi e sciti, per concentrarsi sulla crescente “minaccia” russa e cinese. A questo scopo serve creare una spaccatura irrimediabile tra i colossi India e Pakistan, mettendoli l’uno contro l’altro, schiacciando il Pakistan tra Afghanistan e India, destabilizzando tutti e tre i paesi politicamente ed economicamente. L’India, in questa contesa, riveste un interesse maggiore: potenza emergente, potenza nucleare, merita di diventare il maggiore mercato dell’industria militare Usa e tutta la collaborazione per il rafforzamento del suo dispositivo atomico. Con particolare urgenza ora che a quei figli di puttana di indiani la Russia sta fornendo una portaerei con 16 Mig-29 e offrendo una collaborazione spaziale (Brah-Mos Aerospace) per la produzione di missili da crociera supersonici, armabili anche con testate nucleari. Le tensioni sociali e il sanguinoso conflitto tra musulmani e indù, da rinnovare alla Mumbai, impediscono che possa crescere troppo e pretendere autonomia strategica. Il Pakistan, invece, è un casino, fa da retroterra alla resistenza afghana, è tutto islamico, odia gli Usa e ama ed è amato dalla Cina (Zardari visita Pechino per firmare 12 accordi, uno dei quali per la costruzione di altri due reattori nucleari e un altro per la fornitura di caccia IF-17 con motori russi, d’accordo con Mosca) ed è pure dotato di incontrollabili armi nucleari. La scelta è presto fatta. Il Pakistan va frantumato e distrutto. Va garantito l’accerchiamento strategico di Russia e Cina e il controllo totale sugli oledotti dall’Asia centrale (come ricorda Manlio Dinucci, ultimo baluardo controinformativo nel “manifesto dopo l’irrimediabile scomparsa di Stefano Chiarini, cui dobbiamo questi dati).

Ecco il soft power che il lobbista ebraico Marco d’Eramo attribuisce al neoeletto Obama, non senza aver prima esaltato l’opera del bushiano generale Petraeus per aver “grandemente migliorato (!) la situazione in Iraq”: “Il soft power si fonda sulla seduzione esercitata dalle idee o sulla tendenza a fissare l’ordine del giorno in modo che rispecchi le preferenze altrui”. Il soft power, dunque, è un RPG avvolto in vasellina. E’ Cossutta che bacia Milosevic sotto le bombe del proprio governo. E’ Prodi che mantiene qualche caveat per i nostri bombaroli in Afghanistan. E' inalberando il soft power che il prediletto del “manifesto” e di tutti ha annunciato l’intensificazione della guerra all’Afghanistan, il totale sostegno ai genocidi israeliani e l’attacco al Pakistan. E poi c’è chi da sei anni blatera di un imminente attacco USraeliano all’Iran! A quell’Iran che ha collaborato con il sodale di sempre a far fuori l’Iraq tra il 1979 e il 1988 e tra il 2003 e oggi, e che ora si fa leva occidentale (in senso letterale e non) di quello schiaccianoci che dovrà sgretolare il Pakistan con tutti quei suoi dannati sunniti. Siamo in mano a dei veri giornalisti. .


Partito Comunista del Pakistan sull'attacco terroristico a Mumbai

Comunicato stampa, 02/12/2008



In un comunicato stampa rilasciato dalla Segreteria Generale del Partito Comunista del Pakistan, il compagno Imdad Qazi ha espresso il punto di vista del partito sui recenti atti terroristici, in cui si afferma che la carneficina di Mumbai è una cospirazione perpetrata da forze interessate a fomentare il fanatismo religioso nella regione. Queste forze contribuiscono così a creare il clima ideale per gli USA di proseguire la cosiddetta guerra contro il terrorismo. Sembra che l'India sia indotta a svolgere un ruolo di primo piano in questa guerra imperialista a seguito del possibile futuro ripiego da parte dell'entrante amministrazione di Obama. Il compagno Qazi ha specificato che la nostra regione è diventata uno snodo centrale della cospirazione dell'imperialismo statunitense e di oscure forze fasciste. Diversi centri di potere al mondo fanno a gara nella propaganda. L'India deve evitare la trappola e dovrebbe scoraggiare tutti gli sforzi volti a creare un clima antipakistano; analogamente i media pakistani non dovrebbero sollecitare sentimenti antiindiani. Piuttosto occorrerebbe dar vita a raduni e manifestazioni di pace e solidarietà per la perdita di vite e per i danni materiali causati dagli attacchi terroristici. La sinistra indiana dovrebbe cercare di scoraggiare nel paese tutti i tentativi dei centri di potere volti a promuovere l'ostilità verso il Pakistan. Il Partito Comunista del Pakistan solidarizza con il governo indiano e il suo popolo per le perdite subite ed esprime la speranza che le forze imperialiste e fasciste non riescano nei loro disegni L'India e il Pakistan continueranno il loro percorso verso l'amicizia e la pace. Segreteria Generale