giovedì 26 marzo 2009

1999-2009 LA CRIMINALITA' ORGANIZZATA STUPRA LA JUGOSLAVIA





















E’ il 24 marzo 2009 e io sto dicendo delle cose a un paio di centinaia di persone. Ma le parole escono e se ne vanno come per conto loro, come quando la Bialetti spurga il caffè e certamente non pensa “caffè”. Anch’io non penso a quello che sto dicendo. Non ce n’è bisogno. E non perché questo discorsetto al seminario del Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali, nel decennale dell’aggressione Nato a quel che restava della Jugoslavia, l’abbia preparato con grande accuratezza, quasi a memoria. Piuttosto perché quei concetti, che ora viaggiavano come suoni nell’enorme sala del Centro Congressi Sava, erano sedimentati, solidificati, avevano la consistenza della gramigna che non richiede preparazione, cure. Sono cose che mi porto dentro fin da dieci anni fa, fin da quando mi trovai a puntare la telecamera sulle facce ferme e sui canti del popolo di Belgrado allineato sul ponte Branco, inerme, in una sfida ai codardi killer dal cielo, killer della Nato, killer come l’inserviente al pezzo Massimo D’Alema. Sul ponte Branco c’era Antigone. Target , noi siamo pronti a morire, voi no, voi solo a uccidere. Noi siamo l’umanità, voi la barbarie. Ma poi non importava neanche tanto quanto andavo dicendo, lì, in quella specie di cosmodromo. Prima di me avevano parlato ben altre voci, ben altri testimoni di quel nuovo mare di sangue sgorgato dal cuore d’ Europa dopo il mattatoio interimperialista della II guerra mondiale. Clinton e i suoi eurosbirri ne avevano fatto il tappeto rosso per gli stivali chiodati di chi si apprestava alla “guerra infinita”. Al richiamo di Zivadin Jovanovic, già ministro degli esteri del martire Slobodan Milosevic e indomabile cultore della memoria, dell’accusa e della promessa serba, con il suo Forum di Belgrado, erano accorsi Ramsey Clark, l’altro americano per eccellenza, sempre primo a fianco delle vittime di quella nazione di cui era stato ministro della Giustizia, Michel Chossudovsky, il controinformatore canadese con sulla penna le tacche dei tanti disvelamenti di delitti e inganni Usa, Peter Handke e Juergen Elsaesser, gli scrittori di lingua tedesca che hanno rovesciato il paradigma imperialista, con i suoi ottusi orecchianti dei partiti di “sinistra”, che rovesciava l’equazione carnefici-vittime nel suo contrario. E Diana Johnstone, la prima, grandissima vindice della verità di quanto davvero succedeva nei Balcani e nel Kosovo affidato dall’impero ai suoi gangster di passo. Tanti altri, da quattro continenti. E poi i serbi che non si rassegnano.

In quella specie di dissociazione per la quale le parole andavano da una parte e i pensieri da un’altra, vedevo non le ordinate file di banchi e poltrone di un auditorio, con quella folla di inconsolabili della Jugoslavia perduta, della Serbia mutilata, della verità negata, ma rivedevo sotto il palco nella grande piazza della Repubblica, scintillante di tricolori con la stella rossa al centro, una folla tumultuante con i target della sfida e della dignità fissati sul petto. Una folla che invocava e assicurava resistenza. La Serbia era ancora viva, la Jugoslavia non era ancora persa. In Europa non tutto era precipitato nella collusione con il verminaio dei demoni, nella melma della resa. Da quel palco, e poi sui giornali e alle televisioni che mi intervistarono, dissi una frase per la quale in Italia i compagni – i compagni! – mi avrebbero poi pesantemente strigliato: “Meglio serbo che servo “. Facile assonanza, vero, ma sacrosanta verità. Scandalosa per coloro che si erano acconciati a scimmiottare le perfide demonizzazioni degli “ipernazionalisti serbi”. "Nazionalisti" serbi al pari degli "estremisti" palestinesi e dei "terroristi" iracheni.

Quando la mattina dopo le prime bombe su Belgrado, nella riunione di redazione del TG3, ci venne impartita la nozione dell’ “intervento umanitario” , da sostenere come verità incontestabile, Giovanna Botteri si scaraventò sui profughi kosovari per estrargli, a colpi di ricatti umanitari (ricordate i campi dalemiani dell’Operazione Arcobaleno, poi finiti sotto processo?), orrori e anatemi sui serbi, io lasciai la Rai per sempre e me ne andai con una telecamera a Belgrado. A Novi Sad erano stati disintegrati i più bei ponti sul Danubio e la raffineria in fiamme spargeva veleni nel fiume e nei polmoni, a Pancevo l’enorme complesso petrolchimico bruciava e assolveva alla funzione assegnatagli dalla Nato di contaminare acque, terre, aria a futura moria di questo “popolo di troppo”. A Belgrado due missili sventrarono l’albergo al quale eravamo destinati e, un attimo dopo, l’ambasciata di un paese, la Cina, che non condivideva l’accondiscendenza del fedifrago russo Eltsin nei confronti degli aggressori: a buon intenditor, un paio di missili. C’è una frase dolorosa che ricorre in Serbia, “ci fosse stato allora Vladimir Putin!”. Il modo con cui la Russia di Putin ha saputo risollevarsi dalle vergogne degli oligarchi mafiosi ossigenati dagli Usa, con cui ha saputo rispondere all’avventura sanguinaria contro l’Ossezia del manutengolo georgiano, rende bruciante il rimpianto.

Venivano disintegrati ospedali, scuole, asili, case, ponti, treni, centrali elettriche, tra i 3.500 uccisi da Clinton e dai suoi furieri europei c’erano i bambini delle incubatrici cui era venuta a mancare l’elettricità. Già allora, prima di Baghdad, prima di Gaza, si capiva che gli interventi umanitari erano mirati a eliminare pezzi di specie umana. Oltrechè a distruggere infrastrutture la cui ricostruzione poi, a colonizzazione completata, avrebbe gonfiato i forzieri delle imprese dei paesi assassini. Da Vienna, dove era scappato, il serbo Djindjic dettava ai topgun gli obiettivi da colpire. Sarebbe poi stato innalzato al rango di premier-fantoccio da coloro cui aveva venduto la sua gente. Ma una mano ignota gliela avrebbe poi fatta pagare e avrebbe restituito scampoli di dignità ai serbi.

La Zastava, la più grande fabbrica dei Balcani, cuore operaio della Serbia del socialismo autogestito, era stata polverizzata da 22 missili, lanciati anche sugli operai postisi a scudo umano del lavoro. C’erano testate all’uranio, sulla Zastava, come sull’aeroporto militare di Belgrado e su tanti altri obiettivi. Nella prima guerra del Golfo avevano dato buona prova: nel giro di quattro anni i casi di cancro erano decuplicati e bambini deformi, senz’occhi, senza genitali, con le braccia monche che nascevano dallo stomaco e i crani aperti sulla materia cerebrale, nascevano più numerosi dei figli dell’agente Orange di memoria vietnamita e della massima stragista imperiale Monsanto (oggi in azione con gli OGM). Ci ricevettero i dirigenti sindacali che, con la fuga dei padroni, Fiat in testa, si erano messi a capo delle macerie e da subito avevano iniziato a rimettere mattone su mattone, ferro su ferro. Uscendo da lì, ci inseguirono due missili. Ricordo con un sacco di simpatia, accanto a noi buttatici dal pullman, un Raniero La Valle che, con i suoi corti passetti, trotterellava impassibile a esaminare i crateri. Non c’era solo Djindjic, c’erano quelle pustole di vaiolo che sono le spie. Tempestivamente telefonavano a chi di dovere, solitamente ad Aviano, con l’indicazione di qualcuno o qualcosa da azzerare. Li abbiamo avuti anche a Gaza e, giustamente, non sono sfuggiti alla punizione di Hamas. Intanto a Nis piovevano bombe a grappolo destinate al mercato pieno di gente e su Fruska Gora, il più bel parco naturale dei Balcani, i bombaroli avevano esercitato il loro odio per l’integrità di ambiente e animali. Contemporaneamente il Kosovo, in difesa del quale si pretendeva di aver allestito quell’apocalisse, veniva annegato nell’uranio. Serviva a far scappare torme di terrorizzati da attribuire alle “atrocità” serbe.

Un anno dopo, solo un anno dopo, la Serbia si era rimessa in piedi. Una riserva di vita e di volontà non stroncata neanche da dieci anni di feroci sanzioni e poi dalla più feroce aggressione prima dell’Iraq. Due ponti su tre a Novi Sad erano tornati transitabili, la Zastava, un autentico prodigio dell’orgoglio operaio, rarissimo bene nell’ imbastardito Occidente di oggi, aveva già ripulito tonnellate di detriti e rimesso in funzione due linee di montaggio. C’era un fervore di ripresa che aveva un grande e nobile riferimento, il presidente della Federazione ancora jugoslava, Serbia-Montenegro, Slobodan Milosevic. Più diffamato di lui, con la piena complicità dell’idiozia o del servilismo delle sinistre, c’è forse solo Saddam. Toccava toglierlo di mezzo. E chi meglio del fidato Djindjic? Attuato il colpo di Stato del’ottobre 2001 con le milizie “nonviolente” di Otpor, primo esempio di “rivoluzione colorata” organizzata dalla cosca George Soros-National Endowment for Democracy”- Cia, Djindjic consegnò l’estremo difensore di una sovranità e di un socialismo senza pari in Europa a una delle più nauseanti prostitute nella storia della magistratura mondiale, Carla del Ponte, pubblico ministero nel tribunale dell’Aja, illegittimamente allestito e pagato dai cannibali Usa, con per presidente un’altra oscenità europea, l’italiano Antonio Cassese (successivamente impiegato per la destabilizzazione colonialista del Sudan). Djindjic ricevette 30 milioni di dollari. La cifra trenta ne sancisce l’identità.

Dal TG3 ero passato a “Liberazione”, il foglio del PRC, allora sotto il compagno comodissimo a tutti e a chiunque, Sandro Curzi. Ne ero l’inviato ufficiale nei Balcani. Rispondevo, oltreché a Curzi, di cui ogni arto pendeva dai fili di Bertinotti, a un certo Salvatore Cannavò, caporedattore esteri che, in combutta con il responsabile esteri del partito, Ramon Mantovani, faceva in modo che la linea del giornale su avvenimenti come l’assalto Nato alla Jugoslavia, o il genocidio israeliano dei palestinesi, o la satanizzazione degli iracheni, fossero compatibili con lo scavo che il monarca stava compiendo per penetrare dal basso nei salotti del potere ufficialmente avversato. Difatti, prima di rendere l’anima politica a un giusto signore, la nuova talpa Bertinotti venne premiata con la terza carica dello Stato. Le mie corrispondenze da sotto le bombe e poi dalla Jugoslavia che si rimetteva in piedi e in sesto già avevano sollevato malumori bertinotteschi e i rimbrotti del suo ancellame giornalistico. Ma questo fu niente rispetto a quanto mi capitò nell’ottobre belgradese del 2001. Elezioni vinte dalla sinistre, schede della vittoria bruciate in parlamento da Otpor, l’organizzazione di miliziani Cia che poi avrebbe istruito gli affini in Ucraina, Georgia, Libano, Turkmenistan, Venezuela (dove li smascherarono e buttarono fuori a calci), Milosevic agli arresti domiciliari, la teppa in piazza a bloccare il paese, massacrare di botte sindacalisti ed esponenti di sinistra, occupare la Tv. Scrissi tutto questo, mandai le interviste con i capi di Otpor che, fierissimi, ammettevano di essere “sostenuti dal servizio segreto del più grande paese democratico” , di essere stati addestrati a violentissimi moti di piazza nonviolenti da generali Usa a Budapest, di vaticinare una Serbia Nato piena di multinazionali “attirati da una forza lavoro qualificata e a basso costo”. Al rientro scoprii che Cannavò aveva cestinato tutto. Anche un articolo in cui ponevo a paragone i nostri lager per nomadi ai quartieri di belle case allestite per i Rom dal governo serbo e dalle associazioni di solidarietà ad esso riferite: “Troppo filoserbo ” rampognò il Cannavò, “sei forse pagato da Milosevic?” Meno male che per rispondere a questo supergiornalista, oggi ahinoi dirigente di una micropartito trotzkista (“Sinistra critica”, che forse sta per “in condizioni critiche”), non mi sarebbero bastate le cadenti forze di vegliardo. Incompetenza, boria, cretinaggine e ignoranza abissale della professione furono infine coronate dal rifiuto di pubblicare la mia intervista a un Milosevic che, dalla frode inflittagli con l’accordo di Dayton da Richard Holbrooke (oggi comandato dal buon Obama ad analoghi uffici in Afghanistan e Pakistan), fino al momento del suo confinamento ai domiciliari, mi aveva rifatto la largamente ignorata storia della cospirazione contro il suo paese. “Sembreremmo appiattiti su Milosevic”, spiegò la virago che allora faceva da vice a Curzi e che poi Bertinotti premiò con lo scranno in parlamento. Lì prese coerentemente a svolgere i suoi servigi al governo di guerra concentrandosi su Saddam e sull’Iraq. Era l’ultima intervista concessa dal presidente prima del suo rapimento e consegna agli sgherri dell’Aja. A pubblicare l’intervista fu poi il “Corriere della Sera” che gli scoop li riconosceva.

Dall’inizio della strategia balcanica messa in campo dai determinati eredi di fascio e svastica fin dai primi anni ’90 e del tutto integrata al programma Usa-UE di rapina, distruzione e genocidio, i nostri sinistri avevano, per la parte ottusa, studiato e capito niente, forti di deformate ma arroganti eredità analitiche e, per la parte rinnegata, opportunisticamente e vilmente allineato le proprie valutazioni alle truffaldine macchinazioni delle élites guerrafondaie. Coprendosi le vergogne collaborazioniste con piagnistei sulla “violenza di tutte le parti” , erano partiti in pellegrinaggio per Sarajevo contro il “nazionalismo” di chi difendeva quella che era stata la più avanzata esperienza sociale d’Europa dai veri nazionalismi etnico-confessionali. Tribalismi e sciovinismi con cui si puntava a frantumare il pluralismo democratico della Jugoslavia, eliminare uno spazio di sovranità che impediva l’espansione del brigantaggio Nato verso Est, liquidare un modello di organizzazione sociale non capitalista, creare corridoi energetici a dominio multinazionale, costituire mafiostati proni a ogni ricatto imperialista, stabilire nel Kosovo, etnicamente pulito dai serbi e da altre minoranze riottose, il proconsolato di bande criminali che garantissero il transito verso i mercati occidentali di quel flusso di stupefacenti al quale si affida un ruolo importante nella salvezza del sistema. Il tutto garantito dalla più grande base militare Usa, la Bondsteel kosovara, costruita nel mondo dopo il 1945.

A questo scopo servivano un “dittatore” Milosevic che, reggendo un paese dai venti partiti politici, dei quali 18 di libera opposizione e al governo nelle maggiori città serbe, con una stampa al 92% asservita agli interessi occidentali, era probabilmente il più democratico governante d’Europa; una “pulizia etnica” nei confronti di kosovari albanesi che era la deformazione della legittima difesa di uno Stato sovrano dall’eversione banditesca ordita a Washington, Roma, Berlino, Vaticano e che culminò con l’espulsione di 300mila serbi e rom e la distruzione di 150 monumenti storici serbo-ortodossi; una “tragedia bosniaca” sostenuta dalla balla Nato e sofriana di granate “serbe” sul mercato di Sarajevo, che erano invece partite da cannoni bosniaci (modello 11 settembre), e corroborata da una falsa “strage di Sebrenica” che serviva a coprire le vere stragi compiute dal bosniaco Naser Oric ai danni dei villaggi serbi; la satanizzazione dei leader serbi Karadzic e Mladic, cui si doveva negare il sacrosanto ruolo di difensori di una comunità serba che si rifiutava di restare vittima della riconfigurazione colonialista dei confini.

Tutto questo doveva poi trovare la sanzione definitiva nel processo e nella condanna all’Aja di Slobodan Milosevic, sotto la ferula, teleattivata da Washington, di Carla Del Ponte. Un obbrobrio giudiziario, ripetuto poi nei confronti di Saddam Hussein, con il quale si puntava ad occultare sotto una sentenza abnorme le spaventose responsabilità euro-statunitensi, comprese quelle del recidivo criminale di guerra D’Alema (“Lo rifarei” , dichiarò il barbieruccolo di Gallipoli all’atto della consacrazione dell’indipendenza del narcostato kosovaro), nelle devastazioni e negli stermini di massa della Jugoslavia. Il gioco fallì per la totale incapacità di dare credibilità anche ad una sola delle mille nefandezze attribuite al presidente jugoslavo. Di fronte alla sua coraggiosa e documentata azione difensiva si sgretolarono tutte le accuse e al sicario Del Ponte e ai suoi mandanti non rimase che fare morire Milosevic in carcere, lui e altri coimputati. Gli fu negata l’assistenza sanitaria che i cardiologi russi avevano diagnosticata indispensabile e che si erano dichiarati pronti a fornirgli.

L’intera, mostruosa costruzione di menzogne allestita da chi stava sbranando una preziosa, insostituibile, componente progressista d’Europa fu sostanzialmente condivisa dalle sinistre italiane. Cannavò e soci fondevano lacrime di coccodrillo sulle vittime dell’aggressione con l’avallo incondizionato a tutte le mistificazioni che dovevano agevolare l’aggressione e, da noi, l’azzeramento dell’articolo 11 della Costituzione. Gli ascari di Otpor, già riconoscibilissimi allora, furono salutati come “costola del movimento pacifista e no-global” e invitati a convegni e celebrazioni. Gli sprovveduti ed equivoci Disobbedienti di Casarini facevano comunella a Belgrado e a Padova con i provocatori di Radio B-92, del circuito Cia di “Radio Liberty”, riccamente foraggiati dal destabilizzatore ebreo ungherese George Soros. Il rovesciamento golpista del patriota Milosevic fu salutato da “Liberazione” con l’indecente e criminale titolo “Belgrado ride”. Il “manifesto”, sul quale Tommaso di Francesco, del tutto sprovvisto di autonomia di giudizio, insiste a cianciare di “contropuliza etnica” nel Kosovo affidato al governo dei narcotrafficanti e tagliagole Hashim Thaci e Agim Ceku, avallando così la truffa di una mai esistita pulizia etnica serba, non fu da meno e titolò: “La primavera di Belgrado”. Ennio Remondino, salutato come l’alternativa onesta alle tendenziosità dei trombettieri dell’imperialismo che imperversano sui grandi media, ancora oggi non manca di infiorettare i suoi funambolismi retorici sui Balcani con il riferimento al “despota” Milosevic. E' stato il trionfo di una simmetria che doveva superare lo jato tra colpevole e vittima, rafforzando implicitamente le ragioni del primo. Gli diedi il nome di
"nè-nè", di notevole successiva fortuna. Nè con la Nato, nè con Milosevic. L'apogeo dell'opportunismo. Ponzio Pilato.
Non stupisce se con questo retroterra mediatico e politico, siano sparute e imbelli in Italia le realtà organizzate che si propongono come fonti di informazioni e solidarietà con i popoli massacrati della ex-Jugoslavia. A parte qualche minuscola, ma dinamica e generosa presenza a Torino (“SOS Jugoslavia”, pure presente a Belgrado con Enrico Vigna) e a Bari, che opera tentativi di memoria, solidarietà materiale e aggiornamento, esiste un autoproclamato Coordinamento Nazionale della Jugoslavia che riunisce intorno al classico capetto autocentrato alcuni nostalgici ben intenzionati, ma impegnati più che altro nell’archeologia storica dei Balcani e nell' ormai estenuante rievocazione dei delitti storici del fascismo da quelle parti. Quello che sarebbe il compito fondamentale di una costante informazione sugli esiti attuali dello stupro jugoslavo, di assidui contatti con quel poco che, particolarmernte in Serbia, ancora si muove a contrastare la devastazione sociale e ideologica e la spinta dei governanti fantoccio verso la svendita della Serbia all’Unione Europea, viene sostituito dalla ricerca di ombrelli politici alterni, d'occasione, caratterizzati da frustrati settari dell’autopromozione politica. Massima preoccupazione pare essere la gara a impedire che altri possano assumere ruoli di interlocutori fattivi con le forze della resistenza. Un classico della disperante sinistra italiana.

Il messaggio dominante di tutte le voci del seminario di Belgrado è stato la denuncia di una Nato che, con il concorso del bombardiere D’Alema, in piena aggressione era stata trasformata da alleanza difensiva in strumento di offesa bellica a raggio mondiale. Quella Nato, con le sue basi che fanno, insieme al servilismo di tutti gli schieramenti politici succedutisi al governo in Italia, del nostro paese un paese vassallo, del tutto privo di autonomia e sovranità, i cubani la chiamano “il patibolo dell’umanità”. Atterrisce vedere come dal discorso delle forze di sinistra italiane, nessuna esclusa, quelle voci siano state del tutto espunte e a parlare di sovranità da recuperare, di basi da chiudere, di Nato da scacciare, si passi per polveroso residuato di battaglie fuori tempo. Allora, ancora una volta, “meglio serbo che servo”. Terminato il seminario c’è stata una manifestazione nella centrale Piazza della Repubblica. Poche persone, forse tremila, per un evento di tale portata. Una folla smarrita e confusa. Nessun Milosevic all’orizzonte. La Jugoslavia svanita dall’immaginario collettivo, il partito di Slobo, il socialista, cooptato nel governo dei fantocci. Tanta frustrazione e tanta rabbia che s’incanala verso velleitarismi impotenti: “Dateci le armi!” gridavano gruppi di teste rasate sotto le bandiere della Jugoslavia monarchica e poi, tremendo, “via i comunisti !”, con qualche sassata al gruppetto del comunista Titanovic. Il trauma, l’abbandono di tutti coloro che avrebbero dovuto essergli vicini, a parte la Russia nuova, nessun segnale di amicizia, di solidarietà. Tutti d’accordo sulle bugie che strangolarono la verità dei serbi. Non c’è rassegnazione, forse, ma stagnazione sì, e disorientamento. Hanno fatto più danno i rinnegati e disertori che il nemico. Come sempre. Sul ponte Branco non c’è più nessuno. Penso che anche i palestinesi dopo essere stati annichiliti e squartati nel 1948, ci misero vent’anni prima di riprendere coscienza di sé e generare i fedayin e poi le intifade e poi l’eroica resistenza di Gaza.

Lungo la Kneza Mihaila, l’isola pedonale dei bei negozi al centro, sfilano ancora le filiformi bellezze belgradesi, bionde che si consolano tirandosela come se l’avessero inventata loro. I negozi esibiscono le trucide griffe italiane, c’è Banca Intesa, italiana, Banca Raiffainer, austriaca, la Deutsche Bank. Nelle grandi librerie quando gli chiedi qualche testo di teoria politica, Marx, Engels, ti guardano come se avessi chiesto un osso di dinosauro. Non ce l’hanno. Il palazzetto liberty dove s’erano insediati gli infiltrati di Otpor e che avevo visto in pieno embargo luccicante di computer e telefonini modernissimi, scrivanie di mogano e arredi nuovi di pacca, è abitato dai manager dei nuovi predatori. Finisco in quella che era la mia trattoria preferita. Al posto dell’anziana ostessa dagli occhi strabici e dall’affettuosità casareccia verso gli ospiti, tutti subito amici, c’è un grosso tizio con la testa a cocomero, con lo sguardo fessurato e infido, pare Gennaro Migliore. Non ha sorrisi, non ce l’ha quasi nessuno da queste parti. Ma quando arriva un trio trambustoso e vociante, dall’aria inconfondibile dei boss, si piega in due, offre tavoli, sposta sedie, allarga le fessure a smisurato sorriso, sposta verso di loro una stufa a gas che prima mi stava accanto.

Al tavolo di fronte, sola, con una sigaretta dopo l’altra tra le lunghe dita bianche, una donna immobile. E’ sui quaranta e, dunque, non può non averle viste tutte. E’ pallida e le ciglia tracciate dalla matita scorrono alte, come usava in decenni lontani, su occhi che non piangono ma sanno di pianti e che fissano qualcosa che non sta nella stanza, ma dentro di lei. I capelli sono lunghi e lisci sulle spalle e hanno una ricrescita di settimane. Ogni tanto guarda la punta della sigaretta, poi la tovaglia, ma sono certo che non vede quello che guarda. Quando rivolge gli occhi per un attimo verso di me, lo sguardo si arena molto prima di raggiungermi. Tutto quello che guarda pare essere chiuso dietro la barriera dei suoi pensieri. E’ bella ed è stanca. E’ come immersa in un vuoto immenso. Sopra, sulla parete, la classica icona alla bizantina della madonna col bambino. E’ lì da quando sono entrato. E’ lì immobile quando me ne vado, dopo più di un’ora. Aspetta. Che cosa aspetta? La sua solitudine è peggio di Gaza. Credo che si chiami “Serbia”.

domenica 22 marzo 2009

ARMIAMOCI E PARTITE: TOCCA AL MYANMAR











Inserisco nel blog un pezzo che ho scritto un anno e mezzo fa, quando il convoglio delle vivandiere di sinistra si mise a rincorrere con il solito affanno emulatore il caterpillar imperialista stavolta mirato a sfasciare il Myanmar, ex-Birmania. Il Darfur, ora riccicciato alla grande con l'incriminazione, su ordine del buon Obama, non di Bush o di Olmert, ma del presidente sudanese da parte di quel tribunale-burletta che è la Corte Penale Internazionale, era un po' in stanca, anche perchè qualcuno aveva incominciato a intravvedere la manina di Israele, Usa, Francia, Germania, Nato sul grilletto delle bande di ascari secessionisti di quella regione. Toccava al Myanmar dove, come in Sudan, s'era scoperto quel petrolio che ai licantropi occidentali fa barluccicare all'orizzonte la voglia di una soluzione finale all'irachena.
In questo pezzo mi ero premurato di avvertire che del Myanmar non sapevo proprio niente, che tutto poteva essere vero e che poteva essere vero anche tutto il contrario. Però da che mondo e mondo e imperialismo è imperialismo, l'acquolina che gli sbava dalla bocca, a padroni e imperialisti, alla vista di qualcuno o qualcosa da sbranare, si riconosce immediatamente. E il linguaggio con il quale, scoperto il petrolio, o l'acqua, o diamanti, o miniere, o manodopera a due lire, o il mercato, o correntisti farlocchi, si avventano sull'obiettivo, è inconfondibile, immutabile, non cambia da Fidel a Milosevic, da Ho Ci Min a Saddam, da Al Bashir a Hamas, da Nerone a Saladino. Per cui il sospetto sull'intento strumentale di una demonizzazione s'impone con forza abbagliante. O almeno dovrebbe.

Infatti questa riesumazione del vecchio articolo mi viene suggerita dal solito "manifesto". Ancora vacillante per gli eccessi etilici con cui si ostina a celebrare la"svolta epocale" del nero Obama, incurante del furore bellico che questo bianchissimo nero esplica in Asia e di quello predatorio liberista inflitto alla patria e con cui ripaga l'elite che gli ha comprato l'elezione, il "manifesto" l'ha rifatta grossa. E fetida. Nel solitamente inutile e scioccamente demenziale supplemento "Alias" di sabato 21 marzo 2009, ha fatto colare su tre enormi pagine il disonore di un giornale sedicente comunista sotto forma di un'inchiesta di tale Giancarlo Bocchi. Che fa seguito a tutta una carovana di pannelliani e gruppi neofascisti impegnati nella stessa causa dei secessionist imperialarmati Karen.
L'oggetto sono i soliti destabilizzatori separatisti di uno Stato descritto in modo da far sembrare Hitler o Olmert al confronto due angeli della libertà e della giustizia. Sarà. Lo stato è il Myanmar, chiuso al business e alle basi occidentali e molto amico della Cina, con tanto di petrolio e legname pregiatissimo. Dunque, un Satana da espropriare. Andata a leggervelo il libello in difesa della minoranza armata Karen, una delle tante entità tribali che fanno il mosaico di questo paese e, se solo avete qualche dimestichezza con i propagandisti scaltri dell'imperialismo, con addosso gli stracci logori del buonismo pacifista e umanitarista, basta la terminologia a farvi capire l'intento. Intanto la guerriglia Karen che, è menzionato al volo, si finanzia con le estorsioni (chiamate "dazi") e con il contrabbando di una delle massime ricchezze del paese, il legno pregiato, cioè con il disboscamento selvaggio, è bella e buona quanto la guerriglia delle Farc colombiane, o la resistenza armata di palestinesi, afghani e irachen, sono cattive e terroriste. Lo spirito dell'impresa di Bolchi è quello di Pannella quando si occupa dei Montagnard cattolici, secessionisti pro-occidentali in Vietnam. Basterebbe questo. E basterebbe l'ossessiva sollecitazione alla "comunità internazionale " (l'associazione a delinquere che sapete), definita addirittura "le Grandi Democrazie", a intervenire a spazzare via il regime e dare l'autodeterminazione a qualche decina di etnie che compongono l'integrità nazionale. Insomma un altro Stato refrattario al ritorno del colonialismo (gli inglesi qui avevano fatto mattanze fino agli anni '50) che deve essere squartato sul modello balcanico.

Il curriculum di questo Bolchi lo trovate in internet e conferma in modo perentorio l'assunto. Bastano i titoli di questo apripista che si è fatto le ossa a Sarajevo, sottobraccio al truffatore Nato Adriano Sofri e alla carovana di utili idioti e infiltrati che spellegrinavano da quelle parti ai tempi in cui le trombe imperialiste chiamavano all'uccisione di Jugoslavia e Serbia. Tutti in supporto al postnazista Izetbegovic e alle bande di tagliagole bosniache che la Cia aveva importato dall'Afghanistan. Eccoli, i titoli: "Mille giorni di Sarajevo", "Sarajevo Terzo Millennio", "Il ponte di Sarajevo", "Fuga dal Kosovo", "Viaggio nel pianeta Marcos", "Il Leone del Panshir " (intendendo quel delinquente assoldato dagli Usa di Ahmed Shah Massud), "Kosovo, nascita e morte di una nazione". Ora, in attesa di buttarsi su Darfur e Tibet, il nostro si aspetta una medaglia al merito bombarolo da Massimo D'Alema.

Il Myanmar sarà quel che è, ma questo "manifesto" obamista è proprio una tragedia.
Ciao.


Gaza, Kabul, Baghdad, Mogadiscio, Beirut ?
Macchè: Myanmar!
OLIMPIONICI DELL’IPOCRISIA
Una “sinistra” che caccia la sua gente nelle trappole letali dell’imperialismo

2/10/07

Il guaio con la maggioranza della gente non è la sua ignoranza, ma il fatto che non sa di essere ignorante.
(Josh Billings)

Me ne vengo da una bellissima Brigata di Lavoro Volontario Europea a Cuba e me ne vado subito in Bolivia, alle celebrazioni del Che ammazzato 40 anni fa dalla Cia, con la oggettiva collaborazione del PC boliviano e di Mosca che, come fatto con il Mediterraneo, aveva ceduto l’America Latina agli Usa e detestava i guerriglieri. Meglio il profumo di una morte che si è sparsa come vita su tutto il mondo, che il tanfo delle carogne viventi che, dopo Iraq, Palestina, Somalia, ora si avventano su Sudan, Siria e Myanmar.

Non sono mai stato in Myanmar, che i colonialisti, anche di etichetta sinistra, insistono a chiamare anglofilamente Burma o Birmania. Non sono dunque in grado di esprimere un giudizio su quanto sta accadendo. Del regime di Myanmar so solo che tiene agli arresti domiciliari una di un partito di opposizione il cui responsabile all’estero sta a Washington ed è coccolato dai nazisionisti che lì hanno il loro covo. Come a suo tempo – o lì, o a Londra, o a Copenhagen - gli “esuli” iracheni da un milione di dollari al mese, o quelli jugoslavi, o quelli cinesi, o quelli vietnamiti, o quelli… insomma tutti i fantocci venduti all’imperialismo. Aung Suu Ky non lo è? Vedremo.

Myanmar: non c’è mai stato nessuno, ma tutti sanno tutto
Invece tutti sanno tutto sul Myanmar, ovviamente colonialisticamente – siamo o non siamo nell’era della Grande Riconquista – degradato a Birmania, anche se mai ci hanno messo piede e quello che riproducono è un copione lercio e logoro scritto dalla Cia, dal brigante finanziario George Soros e dalla famigerata National Endowment for Democracy, passato attraverso le operazioni sporche, chiamate rivoluzioni di velluto, in Jugoslavia, Georgia, Ucraina, fallite in Venezuela e, al momento, anche in Libano. “Rivoluzioni” sul cui retroterra politico-ideologico-finanziario ormai tutto si sa, anche per merito della Gabanelli e del suo programma “Report”, ma niente si vuole sapere.
Nulla so del regime di Myanmar, forse solo che dura da troppo tempo, come la mafia di Stato, come i razzisti di Tel Aviv, come i generali di Washington, come la collusione destra-sinistra in Italia, ereditata da quell’”Onesto Berlinguer” che con una DC stragista e mafiosa convolò a nozze, dopo aver contribuito a scavare la fossa al più nobile decennio della storia italiana e aver messo il cappio Nato al collo della “sua gente”. E pensare che si credono di sinistra quelli, annidati nel gilè di cachemere di Bertisconi, o nelle fazioni PRC da sottoscala chiamate “Ernesto” o “Essere comunisti”, che se ne dicono nostalgici e, infatti, votano compatti per il genocidio in Afghanistan e per la ricolonizzazione del Libano. Presto manderanno “nostri ragazzi” a sanguinare e far sanguinare umanitariamente per la megabufala del Darfur, o per i teocrati zafferano di Myanmar.

Nessuno sa niente del Myanmar, salvo i dirittiumanisti ebraici e cattolici
Non so nulla del Myanmar. Come non sanno un cazzo tutti quelli che, a guisa di macachi impazziti, si arrampicano sui vetri della propaganda Usa-Sion (e pensare che Israele è uno dei fornitori di armi pesanti e leggere al Myanmar!) per risplendere per primi di meriti umanitari e di ghignanti onori imperialisti.”il manifesto”, in cui dilagano e imperversano le lobby ebraica e cattobuonista (“Lettera22”), cui il “giornale comunista” ha appaltato l’intera politica estera, fa da capofila e si vede che gli rode il culo per non poter andare oltre i tre paginoni di prammatica contro Myanmar. Bello il giorno in cui a 6 uccisi a Rangoon, spalmati sulle tre auguste pagine, corrispondeva un articoletto su quattro mezze colonne per gli 11 palestinesi ammazzati a Gaza. Fa eccezione Astrit Dakli, che però ci mette del suo con il suo annoso antislavismo fobico, che poi è anticomunismo d’annata, e in Ucraina si colloca addirittura equidistante tra la ladra e spia Timoshenko, le cui ruberie eltsiniane gridano al cielo di mezza Eurasia, e le sinistre operaie. Del resto, sul suo giornale in prima pagina, si paragona Chavez al Duce e si fa dire al sindacalista-chef dei giornalisti che Anna Politovskaya, la nota agente Usa, collaboratrice del circuito radio Cia Liberty e intima della banda di rapinatori facente capo a Eltsin, deve essere santificata come capomartire della deontologia giornalistica. E Robert Menard, dei “Giornalisti senza frontiere”, non gli rendiamo gli onori di difensore planetario dei giornalisti? Deve forse, l’intemerato, accontentarsi dei suoi ritorni materiali, quei milioni che percepisce dal Dipartimento di Stato per diffamare Cuba e chiunque faccia girare i coglioni agli Usa? Qualcuno può al mio amico, segretario della FNSI, infilare da qualche parte i 200 e passa giornalisti ammazzati in Iraq dagli statunitensi, dai loro fantocci e dalle milizie scite cogestite dagli Usa con i preti iraniani?

La carica umanitaria di manifesto e Liberazione
Sono tutti presi da vertigine orgasmatica, tra “Liberazione” (che cestiniamo subito per irrilevanza anche solo professionale) e “il manifesto”. Paginoni su paginoni imbrattati col rimmel delle signore della proletarieria da Capalbio, già connotate di rabido antislamismo nei loro flessuosi ancheggiamenti tra un tango sui “diritti umani”, al servizio di quelli dei bianchi, borghesi e cristiani, e un paso doble sugli eccessi bellici Usa. Pensate, Marina Forti e Giuliana Sgrena del “manifesto” sono riuscite ad ammonticchiare servizi dall’Afghanistan con tante voci “autorevoli”, nessuna delle quali chiedeva il ritiro delle truppe di occupazione e sterminio: qualche lacrima sull’ennesima strage di donne e bambini, “ma guai se se ne andassero ora, sarebbe il caos…” . Bush e Prodi s’inchinano e le baciano le mani. Non è la stessa giaculatoria dei chierici attorno a Bush? E a proposito di chierici, non poteva mancare il contributo del papa, colonialista, razzista e guerrafondaio come quando, in piena aggressione israeliana al Libano, da Ratisbona tuonò bizantinamente contro quei cialtroni di musulmani. Sa solo una cosa, lui, che ai cattolici in Myanmar non viene torto un capello, il che non gli impedisce di offrire la sua vasellina all’incenso ai riconquistatori coloniali. Non procedeva forse in testa alle armate di macellai da Riccardo Cuor di Leone fino ai manipoli del Gott mit uns?

Non so nulla, però posso, e noi tutti potremmo, se non fossimo intossicati da opportunismo, cecità, malafede, dabbenaggine, esprimere inconfutabili giudizi sui sedicenti sinistri (le destre fanno il loro noto mestiere) che di Myanmar si occupano in questi giorni, lacrimando, inveendo, reclamando, invocando, minacciando, sanzionando, sbattendo sciabole: schifosissimi ipocriti, fottuti bugiardi, squallidi corifei del potere, pifferai di Hamelin che trascinano gli sprovveduti nelle trappole letali degli imperialisti, salottieri radicalchic del quieto vivere, utili idioti, sindacalisti rinnegati e traditori che stanno al governo della macelleria sociale come Al Maliki sta a Bush (ora, in vista del referendum sulle falcidie sociali del 23 luglio 2007, tremano e ricorrono al ricatto: “se non vi autosodomizzate, salta il banco!” Cioè il culo e camicia con il regime della confindustria e delle banche).

Mai così perfetto il bipartisanismo
Basterebbe trarre le imperative deduzioni che ci offre il bipartisanismo perfetto materializzatosi, come già sulla megapatacca neocolonialista del Darfur (paese dopo paese, si stanno riprendendo tutto quello di cui le lotte di liberazione dei popoli si erano riappropriate), nell’assalto al governo di Myanmar. Basterebbe vedere l’accozzaglia di chierichietti della tirannia imperiale che guida la canea: Pannella, Veltroni, il Dalai Lama, Bertisconi, Gordon Brown, Olmert, Bonino, Sion e i neocon di Washington, Flavio Lotti, che per non imbarazzare il suo governo degrada la marcia della pace in marcia dei “diritti umani” (bianchi, borghesi, cristiani); Amnesty International, che contro l’uccisione – comunque inaccettabile - di nove manifestanti (vedrete, nel tempo diventeranno 900, 9000. 90.000, come quelli di Saddam, come quelli del Darfur, come quelli di Milosevic) spara come non ha mai sparato contro l’eliminazione di due milioni e mezzo di iracheni tra embargo e invasione-occupazione. La cronaca dell’universo mondo, dettata da fonti tutt’altro che ineccepibili, assomiglia in modo impressionante a quella, veritiera, del nostro G8 genovese; i doppiopesisti che, da Striscia la notizia a Calderoli e Prodinotti, si punteggiano di “fiocchetti rossi per la Birmania”, mentre non hanno mai prodotto neanche una capocchia di spillina rossa per la decimazione sessantennale dei palestinesi. Sotto l’alluvione dei paginoni su Myanmar di ogni singolo organo di stampa, nel frastuono delle querimonie e degli inviti alla baionetta di quella accozzaglia di gaglioffi e delinquenti che ci piscia addosso dai palazzi del potere, da quelli del moderatismo fascistizzante ai “massimalisti” (come il TG3 normalizzato chiama i cacasotto e cacasenno della sinistra parlamentare), scompare ogni barlume di realtà, viene strozzato da un silenzio cimiteriale ogni alternativa, ogni possibilità di verifica, ogni contesto.

A Myanmar come in Kosovo
Ma anche ogni luce incerta di dubbio. Come ne avrebbe dovuto accenderne a potenza solare l’accertata, documentata, mai smentita notizia che alla vigilia della “rivoluzione zafferano” di certi bonzi (non fatevi ingannare: gli studenti non c’erano e non c’erano neanche i responsabili delle organizzazioni buddiste), nel Myanmar si erano rovesciati migliaia di monaci infiltrati dalla Tailandia, paese sotto regime militare reazionario, asservito agli Usa, con le bisacce straripanti di dollari, e che costoro erano poi alla testa delle manifestazioni. Lo facevano per trasferire a Yangoon la democrazia-puttana di Bangkok? Quella che gli stessi buddisti, famelici di dominio non meno degli scaldini nostrani, stanno da decenni infliggendo a forza di massacri alle minoranze islamiche del Sud Tailandia? Il pensiero non è costretto a ritornare all’inondazione del Kosovo da parte di immigrati albanesi, prima di Mussolini, poi di Hoxha, poi di Berisha, in vista dello sfascio della Jugoslavia sovrana e di un narcoprotettorato militarizzato e, indi, della Grande Albania?

Riattivare il triangolo d’oro
A proposito di narco, non è solo per petrolio, gas, legname e delocalizzazione a manodopera da due lire con inquinamento umano e ambientale senza freni, che si va ad ammazzare il Myanmar. Non è forse successo che andati i bianchi borghesi, capitalisti cristiani, bombaroli dei diritti umani, in Afghanistan, in quel paese ha attinto vertici produttivi l’oppio-eroina già sradicato dagli infami Taliban? Non succede che il massimo produttore mondiale di cocaina, la Colombia, sia sotto la ferula di un narcobrigante fascista, marionetta degli Usa e della nostra beneamata e rispettata ‘ndrangheta? Non cadono ogni tanto nei Caraibi aerei della “Goldstream”, appalto Cia, foderati di cocaina? Non ci si impadronisce di Balcani, Kurdistan e Somalia perché sono capisaldi geopolitici, ma, forse di più, perché sono le rotte insostituibili della droga? E allora, che il Myanmar, rinsecchitosi malauguratamente il triangolo d’oro caro all’Occidente, Birmania-Tailandia-Laos, torni alla sua antica funzione di fornitore di droghe che hanno la stupefacente doppia funzione di annichilire intelligenze e volontà e di far entrare nelle banche Usa qualcosa come un trilione di dollari all’anno (Osservatorio Mondiale delle Droghe, Parigi). Non sono le armi e i tossici a mandare avanti il Nuovo Ordine Mondiale?

E in Iraq, Palestina, Libano, Somalia, Afghanistan…?
Si è parlato a volte del sospetto che ci possa essere il metodo dei due pesi e delle due misure in quanto vanno facendo per il mondo coloro che hanno impiegato una misura doppia fin da quanto hanno ammazzato 3000 concittadini a New York e in Iraq, dal 2003 al 2007, hanno ammazzato un milione e 200mila persone (indagine documentata dell’accreditato londinese ORB, Opinion Research Business). In effetti non c’è equilibrio. Specie se ai 90.000 profughi neri cacciati dal proletario Distretto 9 di New Orleans con la scusa di Katrina, avanzata dall’immobiliarista Bush dopo aver fatto saltare gli argini, si oppongono i 4 milioni di civilmente defunti iracheni, profughi in Siria, Giordania, o nelle tende del deserto iracheno.
Ma strabiliante è la capacità di due pesi e due misure dei presunti sinistri della dependance coloniale in cui viviamo. Ligi alla parole d’ordine dell’imperialismo, salvo apportargli correttivini da dame di S.Vincenzo, non ne sbagliano una: “Belgrado ride”, quando la banda Otpor di Radio B92 (del tutto sincronica con le “testimonianze” che poi usciranno da Kiev, da Tblisi, poi da Beirut, ora da Myanmar) poneva fine, su ordine e con dollari cristiani, bianchi, capitalisti, borghesi, alla libera Jugoslavia; “Fidel reprime i dissidenti”, quando una squadraccia di mercenari a mille dollari al mese conduce una campagna terroristica contro civili cubani; “Salviamo il Darfur”, quando predoni istigati e armati da Usa e Francia sfruttano una catastrofe ambientale e umanitaria provocata dai ricchi, cristiani, bianchi, borghesi, capitalisti, per destabilizzare uno Stato indipendente e sovrano e agevolare la rapina occidentale del suo petrolio e del suo uranio, lungo la strategia israeliano-iraniana, ufficialmente in atto dal 1982: sminuzzare confessionalmente ed etnicamente le nazioni arabe; “Sosteniamo Abu Mazen”, specialista di colpi di Stato, vichysmo e terrorismo interno, annullamento di risultati elettorali, cospirazione con il nemico, tradimento del proprio popolo.
E via elencando, lungo le principali direttrici geopolitiche imperialiste che si dipanano dalle Torri Gemelle e da un 11 settembre tuttora dal manifesto accreditato, con crescente accanimento e nonostante tutto, nella sua grottesca versione ufficiale. (di Liberazione, house organ per famigli e famigliari di Bertisconi e Giordano, non mette conto parlare).

Arresti di massa in Myanmar. E i 60mila sequestrati in Palestina…?
Si tuona sul migliaio di presunti arrestati in Myanmar. Non si parla dei 60mila civili e partigiani palestinesi dall’inizio dell’Intifada - sempre sia lodata - sequestrati, detenuti senza processo, torturati, di cui 11.500 tuttora in carcere. Non si parla dei 70mila – per difetto – prigionieri iracheni nelle carceri della tortura di Usa e fantocci. In entrambi i paesi sono migliaia i bambini carcerati. Si lamenta il cronista giapponese ucciso e l’assenza di giornalisti a Myanmar, si tace sul fatto che dopo sei mesi dalla guerra (quando ci andai per l’ultima volta), in Iraq non c’è più nessun inviato, tutti cacciati o sparati tra gli occhi. A meno che non si vogliano chiamare giornalisti quei quattro canarini, tappati nella Zona Verde, che cinguettano al suono del briefing del portavoce dell’esercito Usa. In Iraq le milizie di Moqtada e compari portano avanti la soluzione finale del popolo iracheno pianificata dalla trimurti Usa-Israele-Iran, affiancando le soldataglie drogate statunitensi e dei fantocci nella media di una cinquantina di assassinati e trapanati al giorno. I manifestanti di Yangoon sono tutti stupendi, ma fanno proprio schifo quei terroristi di combattenti per la libertà del proprio paese polverizzato, annichilito, frantumato come un vecchio vaso sumero. In Iraq, Jugoslavia, Somalia, Palestina, Libano, bambini, donne, uomini soccombono in massa e per generazioni agli effetti dell’uranio, dei raggi elettromagnetici e della chimica con cui sono stati bombardati, ma qui si strepita contro i ”militari che hanno usato pistole ad acqua avvelenata contro i dimostranti”, una notizia che ha la stessa credibilità del Saddam che introduceva gli oppositori a piedi in giù nei tritacarta, o di suo figlio Uday che faceva giocare i calciatori sconfitti con palloni di ferro… Si abbocca sempre, sempre. Non è stato proclamato dagli psicopatici al potere negli Usa che il 20% della forza lavoro attuale è sufficiente per mandare avanti la macchina sputaricchezze mondiale. Il resto, fuori dai coglioni tramite l’uranio, la decimazione nazisionista quotidiana e progressiva, la fame da agrocombustibili: “Il popolo reclama pane, diamo brioches alle automobili“.

L’esercito di Myanmar e Blackwater
L’esercito della giunta spara sulla folla”? In Iraq 200mila tagliagole della Blackwater e simili, muoiono per l’Occidente come mosche, ma non registrati, e in compenso possono massacrare che Gengis Khan al confronto pare Madre Teresa di Calcutta (paragone sbagliato, chè quella strega era intima e complice dei più sanguinari despoti del tempo). “A Yangoon anche i bambini intossicati dai gas dei soldati”? C’è uno Stato che sbraita per prendere alla gola subito tutto il Myanmar e che ha il primato mondiale degli infanticidi: non c’è settimana che passa che a Gaza non venga ucciso qualcuno sotto i 14 anni e nelle carceri dell’orrore iracheno, il 14% sono minori e moltissime sono le madri, mogli, sorelle. Servono a ricattare i congiunti latitanti. Ma sono “i generali birmani a non rispettare i diritti umani”?

Fascisti portatori di democrazia, o portato della nostra democrazia?
La casta di serial killer insediatasi con i brogli alla Casa Bianca ha imposto al mondo un processo di fascistizzazione in cui le libertà collettive e individuali sono annullate, in cui si viene tolti mezzo sul sospetto (vedi Abu Omar e mille altri), in cui si viene incarcerati senza imputazione, senza processo, senza legali, senza famiglie (vedi i Cinque cubani ergastolani negli Usa per aver denunciato all’FBI le trame terroristiche emananti dal suo territorio), in cui basta la parola di un idiota per definire Stato canaglia un paese e bombardarne a tappeto il popolo, in cui – venendo più vicino - ministri della polizia e della giustizia diventano figuri come un cambiacasacca ontologico, che si diversifica rispetto al passato quando con nani e ballerini gestiva ladrocini di partito, perché oggi ai derubati mette le manette, o come colui che caccia via i magistrati che incastrano suoi colleghi e amici e magari lui stesso. “Il regime dei generali si è arricchito alle spalle del popolo”? Israele, da quando ha divorato il resto della Palestina non regalatagli dall’ONU e ne ha fatto una Auschwitz a cielo aperto, persegue la liquidazione del popolo titolare di quella terra ammazzando con gli spari e le bombe, ma soprattutto arraffando per sé quello che dovrebbe nutrire e dissetare le sue vittime: la giunta militare di Tel Aviv ruba ai palestinesi l’ 85% della loro acqua.

Moratoria alla pena di morte, via libera ai genocidi
“In Birmania vige la condanna a morte e l’Italia si fa promotrice di una moratoria”? Ma che bravi: moratoria della pena di morte all’ONU e, con o senza ONU, pena di morte collettiva inflitta senza batter ciglio a iracheni, cubani, somali, serbi e afgani e a quanti altri finiranno nel mirino dei boia di Vicenza, Sigonella, Aviano, Via XX Settembre, Pentagono, di quegli italiani che sono i “nostri ragazzi” per il direttore Sionetti di “Liberazione” e per il pio Enzo Mazzi sul “manifesto”. Mentre l’unico titolato a chiamare “mio ragazzo” Lorenzo D’Auria, l’agente Sismi ucciso da fuoco amico in Afghanistan, suo padre, ha dato dell’assassino a Prodi e Bush. Beh, se non finisce in qualche extraordinary rendition in carceri egiziane, quel genitore, qualche speranza di scamparla ce l’abbiamo anche noi.

Ora quei panciafichisti, pesci in barile, cerchiobottisti, collaborazionisti della Tavola della Pace, con tutto il seguito bertinottesco, clericista, lillipuziano, boyscoutesco, amnestista, parasindacale, si apprestano a offrire due sgabelli con buffet ai criminali di guerra. Ad Assisi marceranno non più contro la guerra, ma per i “diritti umani”, salvando capra e cavoli a coloro che il papà dell’agente Sismi da noi ucciso in Afghanistan ha chiamato “assassini”. E Marco Revelli, sul manifesto, si scervella, poverino, per capire dove e come sia scomparso “il movimento dei movimenti”! Dove sia svaporato quel “mondo con dentro tanti mondi” (orrenda patacca del sub Marcos). Quando ci si dimentica di Marx e delle classi è ovvio che si resta abbioccati come Revelli. Che poi è pure miope. Se mettesse gli occhiali e allungasse lo sguardo oltre il Canavese, magari fino a Caracas, La Paz, l’Avana, Falluja, forse non ridurrebbe l’universo mondo a quello stagno putrescente che, correttamente, individua tra i piedi. Il 20 ottobre, poi, giornata della nascente e già vagamente putrescente “Cosa rossa”, costoro incalzeranno con la famosa manifestazione per togliere le castagne dal fuoco a Prodi e ai suoi sicofanti “massimalisti”. Ci si proponeva di tirare un pochino per la giacchetta un premier accarezzato come correggibile, emendabile, riciclabile, nascondendo collaborazionisticamente l’evidenza solare di un senile attivista del Comitato d’Affari del capitalismo-subimperialismo italiano e di un vecchio burattino ai fili del crimine politico organizzato statunitense. Ci si propone, come rimpiange Revelli e come incita l’irrecuperabile ingraista Rossanda, di tenere insieme i partiti della “cosa rossa” e le aree sindacali e associative che vi fanno riferimento. Si sognava, il 20 ottobre, di rimediare allo spaventoso flop del 9 giugno 2007 anti-Bush, come rileva il sempre puntuale Piero Bernocchi, quando in piazza coi partiti immaginati di sinistra c’erano quattro gatti e quattro scagnozzi, mentre al corteo antimperialista, contro Bush e, coerentemente, contro Prodi, c’erano oltre 100mila cittadini. E intanto ci si fascia di dolore e sdegno per Myanmar, per il Darfur e per la difesa, ovviamente anche armata perché umanitaria, dei diritti umani obliterati da quelle parti. Anche perchè si sente in fondo allo stomaco il vecchio brontolio di un incontenibile bulimia di petrolio, armamenti, sangue. Vedrete che botte qui e in giro per il mondo dopo il 20 ottobre a “Prodi ritrovato” e a sbornia passata!

lunedì 16 marzo 2009

ANGELI E DEMONI IN PALESTINA





















ritorno da Gaza



"Un arabo frustrato di nome Raja Shemayel sul suo blog la definisce così: “Prendete un pezzo di terra lungo 40 km e largo all’incirca 5. Chiamatelo Gaza. Poi riempitelo con un milione e 400mila abitanti. Dopodichè circondatelo con il mare a ovest, l’Egitto di Mubarak a sud, Israele a nord e a est e chiamatela la Terra dei Terroristi. Poi dichiarate guerra e invadetela con 232 carri armati, 687 blindati, 43 postazioni di decollo per jet da combattimento, 105 elicotteri armati, 221 unità di artiglieria terrestre, 346 mortai, navi da guerra, 3 satelliti spia, 64 informatori, 12 spie infiltrate, 8000 truppe. E ora chiamate tutto questo “Israele che si difende”. Adesso fermatevi un momento e dichiarate che “evitate di colpire la popolazione civile” e definitevi l’unica democrazia in atto… Chiamate tutto questo come volete. Israele era perfettamente al corrente della presenza di persone disarmate (l’85% dei 1.455 ammazzati nel massacro delle tre settimane erano civili, il 30% bambini. N. d. A) perché è stato proprio Israele a metterle lì (due terzi della popolazione di Gaza sono profughi del 1948 e loro discendenti. N.d.A.). E’ allora chiamatelo genocidio, è più credibile… Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua ha dichiarato ieri al giornale “Haaretz”: “Uccidiamo i loro bambini oggi, per salvarne tanti domani”.
Restiamo umani".

Vittorio Arrigoni, volontario in Palestina, chiudeva così quei pezzi da Gaza che, sul solo “manifesto”, davano voce ai senzavoce di Gaza nel corso dell’aggressione 27 dicembe 2008 – 18 gennaio 2009 e seguenti. Gli italiani perbene e da lui disintossicati gli hanno già fatto un monumento nel loro cuore. Era tornato a Gaza qualche giorno prima dell’assalto sui battelli del “Free Gaza Movement”. Uscito su pescherecci nel mare proibito ai pescatori di Gaza, era stato intercettato e sequestrato dalle motovedette israeliane. Sbattuto in una fetida prigione, aveva imposto il suo rilascio con uno sciopero della fame. Non ci ha pensato su due volte a riprendere la nave di Cipro e tornare tra i “suoi”. Gli hanno sparato e risparato, anche dopo la “tregua”, un sito sionista ha invitato a ucciderlo, ha visto sventrare le ambulanze e cadere gli infermieri con cui correva in soccorso ai feriti, le rare volte che le belve con la Stella di Davide lo consentivano. Ha disintegrato la panna montata delle menzogne politiche e mediatiche con cui un’armata di ascari dei due Stati Canaglia, Usa e Israele, soffocava lucidi neuroni e impediva giusti moti del cuore. Due mesi dopo una “tregua” che è costata altri undici morti ammazzati, bombardamenti quasi giornalieri, il terrorismo dei tiri al bersaglio a contadini senza più campi e pescatori senza più mare, Vittorio è sempre lì. Non è andato a casa, a tirarsi fuori dall’inferno, a ritemprarsi dai suoi, dalla ragazza. E’ ancora lì, tra quei contadini, quei pescatori, quei resistenti, quei mutilati e quei bimbetti ai quali gli scherzi con Vittorio sanano ferite e recuperano la risata. Ho incontrato Vittorio Arrigoni a Gaza, siamo diventati amici. Un italiano che ti riconcilia con ‘sto paese sbrindellato e malfamato. Diceva Fabrizio De André: “Dalla melma nascono i fiori”.

Siamo seduti accanto, Zenab ed io, su una branda nell’edificio mezzo sventrato e riempito di graffiti dispregiativi dai militari invasori, tipo “Ammazza gli arabi”, “Torneremo”, “Israele è stato qui”, “Vi uccideremo tutti se non vi togliete dalle palle”. Poi ci sono le decorazioni: una serie infinita di stelle di Davide, merda spalmata sulle pareti, tutto quello che c’era in casa scagliato dalle finestre a schiacciare sotto una confusione di colori ormai stinti - panni, quadri, libri, pentole, coperte, materassi, mobilia - quello che era un giardino. Siamo a Zeitun, quartiere della periferia est di Gaza City disintegrato dalla colonna di tank israeliana che qui è stata fermata dalla guerriglia. Quando i prodi soldati di Tsahal, polverizzate con i cannoni, gli F16, gli Apache, le costruzioni che si trovavano davanti, perlopiù con tutta la gente dentro, venivano affrontati nel corpo a corpo dalla Resistenza, l’avanzata finiva. Nel combattimento casa per casa, di cui sono testimonianza le migliaia di fori sulle case subito dietro l’area spianata da bombe e proiettili, questi eroi dell’ “autodifesa”, abituati da anni a infierire sui ragazzi e sulle donne delle pietre e delle manifestazioni, poi duramente bastonati dagli Hezbollah in Libano, se la facevano sotto e invocavano la mamma. Lo conferma una confessione scritta sulle pareti tra le ingiurie alle vittime: “Mamma, fammi tornare a casa”.

Zenab ha tredici anni, bionda, occhi bruni chiari, le mani serrate in grembo. Sorride solo quando una turba di bimbetti dai due ai cinque anni, fratelli, cugini, salta sul materasso come fosse una pedana elastico, facendo ballare la mia telecamera. Fuori dalla finestra, chiusa da teli di plastica, si dilata a perdita d’occhio un mare di macerie fino ai campi che coprono le poche centinaia di metri prima delle torrette di guardia israeliane. Quelle dalle quali, sparandogli addosso, i cecchini si divertono a far saltare le cervella ai contadini affamati che si peritano di affacciarsi sulle loro colture in rovina. Si chiama “tregua” ed è costata la vita a 13 civili già nelle prime due settimane dopo il 18 gennaio, data dalla quale l’onesta informazione italiana fa partire il cessate il fuoco israeliano. Nello stesso periodo qualche decina di minirazzi si sono persi tra gli sterpi oltre confine. Di quelli si parla, senza peraltro citare le ripetute dichiarazioni di Hamas che ne smentiscono la paternità. Gli israeliani sono i migliori al mondo nelle provocazioni. Bisogna pur offrire ai media voraci di vittimismo israeliano un alibi per i quotidiani bombardamenti da “tregua” su Rafah e su quel protocollo salvavita che sono i tunnel verso l’Egitto.

Quella distesa di rovine, tra le quali spunta, spaccata a metà, la cupola d’oro della moschea, una delle 40 rase al suolo, erano le case della grande famiglia Samudi. Zenab è una Samudi. Le sono stati ammazzati 29 parenti, tra cui la mamma, il papà, tre sorelline, una cuginetta. Di questi ha vissuto la fine. E me la racconta. La mamma e le bambine erano state bersagliate dai proiettili dei carri mentre se ne stavano rintanate in quella che gli era sembrata la stanza più sicura. All’avvicinarsi notturno dell’aggressore avevano voluto fuggire verso il centro città, ma gli israeliani li avevano costretti a rinchiudersi in quella casa. Poi avevano aperto il fuoco. Così in tante altre occasioni, ovunque, a Jabalia, Abed Rabbo, Khan Yunis, Rafah… Un loro capo di Stato maggiore non aveva prefigurato i palestinesi come “scarafaggi impazziti in fuga da una bottiglia”? Con la differenza che qui, agli scarafaggi, era anche stata tappata la bottiglia.

"La mamma era piena di schegge, ma aveva gli occhi aperti e respirava, respirava. Io la chiamavo lei mi guardava fissa, poi non respirava più. La chiamavamo, la chiamavamo. Anche alcune delle mie sorelle non si muovevano più. Guardando in giù, vedevamo i nostri piedi strisciare nel sangue. Mio padre, allora, ci ha detto meglio morire insieme alle nostre case là fuori, andiamo. Prendemmo degli stracci bianchi e ci affacciammo. C’erano tutt’intorno le sagome dei carri con i cannoni puntati su di noi. Nessuno ci disse niente e noi, col papà avanti, ci avviammo. Eravamo una lunga fila, tutti con gli stracci bianchi”. Poi Zenab passa inconsapevolmente al presente: “Facciamo il giro della casa, camminiamo tra calcinacci e spuntoni di ferro, quando parte un colpo, poi altri, sibili dopo sibili e schegge che schizzano dai muri. Papà cade per primo, poi altri, nel buio non capisco chi.
Da dietro arriva d’improvviso la sirena di un’ambulanza, ma gli spari aumentano e vanno anche in quella direzione. Si sente una specie di grossa martellata sul metallo, uno schianto come quando si scontrano due automobili. E la sirena non suona più. Ci mettiamo a correre, sempre con le pezze bianche in alto. Ancora spari…


Zenab è salva. Oggi parla come una donna adulta. Mi guarda con il viso immobile. Solo le labbra si muovono. E’ una grazia che intorno le razzolino tutti quei fantolini vispissimi, impegnati a spintonarsi davanti all’obiettivo – “sura! sura!, foto! foto! – o a giocare alla guerra con dei legnetti. La guerra vera a uno di loro, scarsi due anni, ha maciullato una mano: mancano quattro dita, mezzo palmo, resta un mozzicone di pollice. Me la mostra, quella manina massacrata, e me ne cerca l’effetto negli occhi. O una spiegazione, chissà. Non c’è migliore infanticida di Israele. Di Zenab, della sua cuginetta di dieci anni, Duna, con gli occhi neri tagliati obliqui, la coda castana sulla nuca e sulla faccia il miracolo della gravità mescolata alla gentilezza, ce ne sono tante quanti sono i fratelli e le sorelle dei 430 bambini scannati in tre settimane. Un centinaio subito il primo giorno, quando le orde volanti israeliane arrivarono intorno alle 11.30, a colpire nel mucchio scolaretti e studenti che a quell’ora sciamavano per le strade nel cambi di turno. Non si fa forse così un genocidio, ai termini della definizione datane dall’ONU? Chissà se a tutti questi sarà di beneficio quello che il gruppo di generosi medici liguri, al quale mi sono accompagnato nel viaggio d’andata, riporterà in Italia, tra un’opinione pubblica rinserrata nella menzogna mediatica, ma forse ancora aperta alle lacrime e alla mano da offrire ai più dannati dei dannati bambini della Terra.

Ci avevano bloccati al valico egiziano di Rafah, noi, volontari solidali da mezzo mondo. italiani del Forum Palestina con le somme raccolte per l'ospedale "Al Awda", statunitensi, francesi, inglesi, irlandesi, tedeschi… Una turba un po’ stracciona che si accalcava sui cancelli presidiati da poliziotti in nero, gentili, inflessibili: non si passa. Si erano accampati sul pavimento di cemento della bottega di Mohammed, a fianco dei cancelli. Avevano resistito tre giorni e due notti, con conciliaboli tra “capogita” e funzionari doganali, ossessive telefonate alle rispettive ambasciate a invocare quel pezzo di carta che, secondo i guardiani del confine, ancora mancava, i chai caldi, tè, e i cahua, caffè turco, con merendine, del giovialone dai sorrisi sdentati Mohammed, sempre guardati a vista da poliziotti, che invano avevano tentato di spintonarli via, a volte assordati dalle bombe che gli energumeni sugli F16 lanciavano a ridosso del confine, sui tunnel. Magari anche sull’apprensività degli “internazionali”, che si spaventassero e rinunciassero a sostenere gli “scarafaggi” riportando al mondo l’evidenza che Israele è uno Stato fuorilegge, primatista mondiale di razzismo (come sentenzia il documento ONU per la convenzione “Durban 2”), criminale. D’improvviso, al tramonto, i cancelli si socchiudono. Proprio quando ormai si stava diffondendo il timore che non si sarebbe mai passati e che ci saremmo dovuti rassegnare a raccontare a casa quanto infame fosse la subalternità del despota gerontocrate Mubarak allo Stato sionista e quanto cinica la sua collaborazione nel tirare il cappio intorno a un popolo di insanguinati e affamati che, con le belve alle calcagne, premevano disperati su quei cancelli e su quella muraglia che l’Egitto ha copiato dal muro di Sharon.

Il blocco israelo-egiziano (non c’è foglia che si muova al Cairo che Israele non voglia) s’infrange al terzo giorno. Di colpo, senza spiegazioni. E passiamo col cuore in gola, anzi col cervello nel cuore che ha messo la quarta. Non è che si sia compiuta un’impresa epocale, come alcuni avrebbero subito strombettato. Prima di noi qualcuno aveva già disfatto la tela della collusione israelo-egiziana. Ce l’avevano fatta Angela Lano di Infopal, un’altra grande voce per la Palestina, quelli semigovernativi di Crocevia, la troupe Rai di Jacona… Noi avevamo semplicemente contribuito a svelare la strategia israelo-italo-egiziana di rendere il blocco impenetrabile o, almeno, eccessivamente faticoso da superare. Ma dopo di noi la crepa diventa subito voragine, in fondo al quale il regime del satrapo si nasconde davanti allo scandalo internazionale della sua miserabile correità. Appeso ai muri della monumentale porta resta lo striscione “Palestina Libera”. Ci segue la carovana delle 60 infuriatissime donne Usa dell’associazione “Code Pink” , Codice Rosa, tra le quali scorgo le facce sorridenti e tenere dei genitori di Rachel Corrie, la martire della brigata internazionale di resistenti passivi, schiacciata a Gaza da una ruspa israeliana, davanti alla casa che voleva preservare dall’annientamento. Mi diranno che la morte di Rachel ha dato nuova vita a loro e a tantissimi negli Stati Uniti, una vita che da allora si mescola con quella che scorre nelle vene di coloro che stanno tornando per l’ennesima volta ad abbracciare. Due giorni dopo entra anche l’incredibile colonna del deputato britannico George Galloway, segretario del partito “Respect” . Lui e la sua gente è come se confermassero la sentenza capitale per ignavia ai partiti di sinistra italiani. Sono 150 tra camion zeppi di rifornimenti vitali, ambulanze nuove di pacca, pescherecci, furgoni. Il tutto si chiama "Viva Palestina". Impossibile sia per i macellai di Tel Aviv, sia per il loro magazziniere egiziano stoppare quel convoglio, anche perché viene dal Regno Unito e Galloway è, dopotutto, un parlamentare di Sua Maestà. Lo zimbello successore dei faraoni si consola bloccando nello stadio di El Arish, a due passi dal confine, qualche centinaio di tonnellate di generi di prima necessità portate da organizzazioni umanitarie varie, roba ormai da macero. Per passare, un centinaio di robusti figli di Albione hanno dovuto fare a botte con una specie di Celere egiziana. I cardini dei portali di Rafah sono dunque stati mossi anche dell’imbarazzo spurgato da giornali che urlavano “scontri tra volontari britannici e polizia egiziana comandata a impedire l’arrivo di cibo e farmaci a Gaza”.

Le terre, i centri abitati che risalgo verso Gaza City, dopo averli frequentati sotto lo stivale dell’occupante, allora impegnato nelle distruzioni selettive e negli assassini in serie mirati, con corredo di civili trucidati dall’"effetto collaterale", danno corpo alla cifre accertate dalle agenzie ONU, dalla Croce Rossa e da altre organizzazioni come “Amnesty International” o la rivista medica “Lancet”. Cifre che rivelano quanto bravo sia Israele a polverizzare case, devastare ambienti, colture, infrastrutture, punire collettivamente sterminando inermi, preferibilmente di genere femminile (procreano!) e di precoce età (crescono!), sperimentare per la seconda volta, dopo il Libano, le armi antipersona che feriscono e uccidono tra spasimi prolungati, mutilano per sempre, avvelenano per generazioni. Tutte cose che, secondo il diritto internazionale e la Quarta Convenzione di Ginevra fanno di un occupante, di un regime, l’imputato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma, intanto, imputato è Omar el Bashir, presidente di un paese che non si piega ai ricatti e alle minacce sioniste ed imperialiste e contro la cui sovranità e indipendenza quelle forze hanno scatenato una sanguinosa secessione in Darfur. Al riottoso Sudan, un paese sul quale il colonialismo britannico ha infierito nel solito modo barbarico e che alla Corona ha inflitto sconfitte memorabili, deve essere insegnato che a comportarsi così si finisce come l’Iraq, l’Afghanistan, la Palestina, la Jugoslavia, si finisce preda dei cannibali. Ha il torto di stare con i palestinesi e i liberi iracheni, El Bashir, di privilegiare per opere e petrolio una Cina assai più equa nei rapporti degli avvoltoi occidentali, di aver respinto tutti i tentativi di destabilizzazione orditi da Usa, UE, Israele, Vaticano, fin dai tempi in cui il Sudan veniva azzannato da Sud. Apprendiamo dalla tv di Hamas a Gaza che il presidente sudanese è stato incriminato dal Tribunale Penale dell’Aja e che ne è stato chiesto l’arresto. All’Aja hanno processato e fatto morire il difensore della Jugoslavia unita e socialista, Slobodan Milosevic. I giudici dell’Aja, non si sognano di incriminare Olmert, o Bush, o il fantoccio iracheno Al Maliki, trapanatore di crani, o l’Uribe colombiano delle stragi di Stato di contadini e sindacalisti, o il comatoso Sharon, o il serial killer kosovaro Hashim Thaci, oggi premier di un narcostato Nato. Ma Omar El Bashir è un arabo e gli arabi vanno dispersi, è un musulmano e serve allo “scontro di civiltà” e, come questi qua di Gaza, tiene la schiena dritta.

I terreni squarciati dai cingoli dei tank e dalle ruspe, gli uliveti, frutteti, campi di carciofi, fragole, cavoli, melanzane, grano, sradicati e sconvolti, un rosario di costruzioni abbattute, le acque stagnanti e putride attorno alle centrali elettriche colpite e ai pozzi sfondati, le moschee violate e disintegrate, le scuole e gli ospedali tolti di mezzo per impedire la vita della mente e del corpo.
Il milione e mezzo di tonnellate di esplosivo, cinque bombe di Hiroshima, scagliate, dopo decenni di ammazzamenti e angherie e tre mesi di embargo strangolatore (285 assassinati, 800 feriti), da quel Mazinga feroce e imbelle su un milione e mezzo di brave persone civili raggrumate nel formicaio dei 360 km quadrati, oltre ai 1.455 morti, con altri che continuano a cedere alle loro ferite e intossicazioni, e ai 5.500 feriti, perlopiù irrimediabili, hanno guadagnato a Israele il seguente bottino: 600mila tonnellate di detriti da 14mila case, per centomila sfollati ridotti in tende, tuguri, caverne sotto i lastroni delle macerie e da 68 strutture di governo e amministrazione, 48 centri sanitari, 179 scuole pubbliche, 153 moschee tra distrutte e danneggiate, 11 milioni e centomila metri quadrati di terre coltivate, 141mila ulivi, 137mila alberi di agrumi, 10mila palme, animali da allevamento per 20 milioni di dollari, 115 ettari di serre, 75 km di strade agricole cancellate, 48 km di acquedotti, 415 pozzi e stagni di raccolta sfondati, il 93% delle strutture commerciali e industriali, per un danno complessivo di due miliardi e 734 milioni di dollari, e una perdita del 48% di un PIL espresso dall’80% di disoccupati e dal 70% di indigenti da embargo sotto il livello di povertà.
Al passivo del bilancio israeliano, Hamas in piedi e in ascesa verticale di consensi. Due mesi dopo il massacro un sondaggio in tutti i territori occupati dà al primo ministro Haniyeh, di Hamas, il 47% delle preferenza per presidente della Palestina, contro il 44% del titolare in proroga, il rinnegato Abu Mazen. Tre mesi prima l’ominicchio che si protegge dalla rabbia popolare con le truppe occupanti e i pretoriani armati e addestrati da generali Usa in Giordania, stava al 47%. Ma poi aveva dichiarato che l’olocausto di Gaza era colpa dei razzi Kassam di Hamas. Nell’attivo dell’umanità, poi, va registrata la resistenza vincente di un popolo che, percosso e stremato, ha sollevato ancora più in alto le bandiera della libertà e della dignità: “Restiamo umani “, invocava dal mare di sangue Vittorio Arrigoni. Quelli di Gaza lo hanno ascoltato. Invece va nettamente collocato nella colonna del passivo umano quel 96% di cittadini israeliani che, gasati dalle atrocità dei propri miliziani, ha sostenuto il massacro, il 61% che vuole cacciare i palestinesi cittadini di Israele (il 24% nel 1991), l’80% che non accetta arabi nel quadro dello Stato (nel 2000 era il 67%). A costoro la voce di Arrigoni non è arrivata.

La sedicente “comunità internazionale”, che compatta aveva sostenuto l’ignominia dell’ “autodifesa” al fosforo e all’uranio di Israele, riunita a Sharm El Sheik a marzo, ha stanziato circa 4 miliardi di dollari per ricostruire quanto l’assalitore aveva demolito. C’era da far guadagnare le proprie ditte e far guadagnare un Abu Mazen rimesso in sella. Ma a Gaza non si ricostruisce un bel nulla, mentre Israele ruba dai fiumi e dalle cave di Cisgordania, per la superfetazione delle sue colonie illegali, il materiale edile che non possiede, Israele mantiene su cemento, mattoni, ferro e tutto il resto il blocco più assoluto. Se non sono scappati dalle bombe, se ne andranno pure per non vivere in eterno sotto cartoni e nelle tende. O, quanto meno, vi si estingueranno. Dimenticano, i pulitori etnici sionisti, che quel popolo nelle tende ha vissuto e resistito, chiavi di casa in mano, per decenni.

Uscito dalla casa che ora accoglie i sopravvissuti della famiglia Al Samuni, tra dune di calcinacci e ferraglie, vedo baracchette di plastica dai due, tre metri quadrati. In una trovo una famiglia di padre, madre e sette bambini a negare l’impenetrabilità dei corpi. Con i teli schiaffeggiati dal vento gelido, quei ricoveri paiono vele in un mare dove la spuma delle onde sono le polveri dei mattoni disfatti. I ragazzi più grandi rovistano tra i frantumi alla ricerca della coperta, del tegame, del quaderno. La madre, vedendomi arrivare, si precipita all’interno a rassettare le quattro miserie recuperate. Nell’angolo c’è un fornellino improvvisato con due mattoni e una griglia. Sopra, due pannocchie di granturco e sei pomodori. E’ il pranzo. Dopo, andranno ai tendoni dell’Unicef e dell’Unrwa a ritirare il pacco settimanale: riso, zucchero, sapone, fave. Coloro che stanno meglio si sono riuniti, in affollamenti disumani, a congiunti e amici in città. Chi sta peggio sono quelli come Mahmud, sepolto nell’oceano di macerie dell’area periferica Abed Rabbo. Lo trovo sotto la minaccia incombente del primo piano della sua casa che, spaccato in tre pezzi, si è in parte piegato a fare da tettoia al pianoterra. Tra i ferri del calcestruzzo si intravvede il cielo e si percepisce il fischio del vento. Mahmud ha cinquant’anni e quella casa l’aveva costruita per una famiglia di 26. Sei sono stati annullati dai serial killer della Grande Israele, gli altri sono sparsi per ogni dove lungo la Striscia, due in ospedale a continuare farsi divorare dal fosforo, uno in Egitto dopo che amputazioni successive, determinate dalla necrosi inarrestabile indotta dalle armi proibite, ne avevano ridotto la dimensione di un terzo, una figlia all’ospedale Shifa di Gaza, il più grande, gestito da Hamas. Quando lo abbiamo visitato i medici non capivano perché la giovane donna sia intatta fuori e tutta devastata negli organi. Uno di quei sanitari che per 22 giorni hanno lavorato giorno e notte, senza posa, ad accogliere fino a 400 feriti al giorno, mi indica un poster alla parete. C’è un ragazzo, forse ventenne, sprizzante allegria, “Era il mio collega di ambulanza, lo hanno ucciso mentre stava raccogliendo un groviglio di feriti a Jabalia. Gli volevo molto bene”, dice battendo la mano destra sul cuore. Mi sorride e piange. Lo ritroveremo nel mio filmato.

Mahmud ha cinquant’anni, è grande e grosso e fuma sigarette da ammazzarsi, come tutti gli arabi che scontano la propria tensione facendo fare ricchi conti agli avvelenatori della Big Tobacco statunitense che qui smerciano quelle sigarette al fulmicotone che nell’Occidente ipocritamente salutista sono addomesticate. Ha costruito la sua grande casa per dieci anni e ora sta sdraiato su una stuoia sotto quel soffitto pericolante. Gli tengono compagnia una montagna di stracci colorati, arredi frantumati, blocchi di calcestruzzo, un amico e, fuori, un somaro col carretto. Non so se in psichiatria esiste la categoria degli incazzati sereni e affettuosi. Semmai Mahmud l’ha inventata. Anche lui ha un fornellino di massi e la teiera del chai. Me ne offre un bicchiere rovente. “Ci ho messo una vita a costruire la mia casa". Allunga lo sguardo oltre i cumuli di rottami, punteggiati da altre baracchette e solcati da asinelli con carretti che portano anziane donne in nero con le loro fascine di legna raccolta tra le macerie, legno che era mobilio, porte, infissi, quadri dei cari, spesso dei martiri. Lo allunga oltre, Mahmud, fino al vicinissimo orizzonte dove finisce la sua terra martoriata, ma libera e inizia la sua terra predata e occupata: “Se quelli tornano mi troveranno ancora qua. Questo posto è mio, oggi e fra cent’anni ”. Pare che parli della Palestina. Pochi metri più in là, oltre un impianto di potabilizzazione distrutto, rimpiazzato da quattro bidoni di Medicins Sans Frontieres, si eleva una micropergola, fatta di un telo blù in alto che sbatte nella tramontana, già strappato in parte dai quattro stecchi che lo sorreggono. Sotto c’è un tavolino e una bambina fissa su fogli di carta. La “pergoletta” glie l’ha costruita il papà che ora si sta adoperando con altri uomini intorno a tubi tipo Innocenti, tutti contorti e da raddrizzare, innalzare, infilare gli uni negli altri. Una ricostruzione “dal basso”, di iniziativa diretta, in attesa che la famigerata “comunità internazionale” imponga alla manica di sadici assedianti di far passare materiali edili. Chiedo cosa stanno mettendo in piedi. “Un centro culturale giovanile” , rispondono. Quando si dice le priorità. A fianco un bell’uomo anziano, barbuto, cotto dal sole, con i figlioli che gli portano avanzi di distruzioni, tira su una casetta. I pezzi di risulta li incolla con terra e acqua, fango, come duemila anni fa. “No cement, grida, Israel no cement” . E la bambina sotto la “pergola” che pare da prima media? Mi avvicino e vedo che studia. C’è un libro dalle pagine sfrangiate, ci sono due quaderni laceri, bianchi di povere, pieni di sinuosi caratteri arabi tracciati con una biro smozzicata (non fanno entrare matite e penne, “potrebbero servire ad armare Hamas”). Alza lo sguardo sullo sconosciuto che le punta un tubo di metallo e vetro e subito sorride, come tutti qua. Qua e dal Marocco all’Iraq, quando si tratta di popolo arabo, non delle sua fetida borghesia occidentalizzata. Studi da che cosa? “Da insegnante di arabo, perché è la lingua di tanto tempo fa e di tanti bei libri… o forse da professoressa di matematica, la scienza è importante per noi…”.

Le grandi periferie dei campi profughi viste dall’alto sembrano una fungaia di champignon. Dalle distese di macerie spuntano tendopoli, piccole tende di vecchio modello in cui le famiglie stanno compresse come gambe nella calza. E’ gente che viene dal ’48, dalla Nakba, la catastrofe dei villaggi bruciati spesso con gli abitanti dentro e delle espulsioni di massa. Quelli e i loro figli e nipoti. Hanno triplicato la popolazione di Gaza, un po’ per volta sono usciti dalle tende che un’ONU bastarda, sancitrice della spartizione iniqua imposta dai colonialisti di ritorno, aveva allestito, si sono accasati raccattando mattoni e mettendolì su con la lentezza di chi si doveva dividere tra l’Intifada e il lavoro sui campi o nelle botteghe. Oggi si ritrovano sotto una tenda e da una tenda più grande aspettano il pasto che non si possono più permettere: “Quel cumulo di detriti era casa mia, tenevo qualche risparmio sotto il materasso, per ogni evenienza. Il materasso è bruciato, forse sotto quei muri rotti c’è ancora qualche soldo”, mi dice una signora che districa rametti per il fuoco.

Dallo striminzito entroterra al mare è una successione di montagne o distese di sacchi della spazzatura, dilagano come macchie d’olio. Hanno bombardato anche le caserme e i mezzi dei vigili del fuoco, in modo che la gente ardesse meglio, e i depositi dei mezzi per il trasporto e il trattamento dei rifiuti solidi. E’ così che si semina rischio sanitario, complemento alla denutrizione. All’ospedale Al Shifa, il più grande ed efficiente di Gaza City, sono ricoverati bambini con problemi di respirazione determinati dal fetore e dai roghi di immondizia. Proliferano insetti e ratti, roba tossica si infila nel suolo e nelle falde.

Lo sconforto impotente del visitatore si placa all’attraversamento del centro città. Qui rifulge una capacità addirittura eroica di mantenere in piedi la normalità. Merito indubbiamente della natura di questa popolazione, provata e mai domata da ininterrotte apocalissi, ma merito anche di questi governanti di Hamas, cui nessuno riesce a disconoscere onestà – quale abisso rispetto ai trafficoni e traffichini Fatah della Cisgiordania –, della loro efficienza nell’allestire reti di sostegno ai bisognosi, nel non far venire mai a mancare l’organizzazione della vita sociale, sanitaria, educativa. Ci sono i sapientoni della correttezza politica che lamentano “la mancanza di un progetto socialista” di questi politici religiosi. Esternino la loro supponenza alla gente comune di Gaza, quella che ha avuto subito un primo indennizzo per sopravvivere, quella i cui bambini non hanno perso un giorno di scuola, neanche quando Israele ne ammazzava cinquanta al giorno, quella che non ha mai mancato di trovare l’impiegato dietro allo sportello della pensione, della registrazione anagrafica, della contesa giudiziaria, del banchetto di internet. Quella che con Hamas vuole resistere, ieri, oggi, fino alla vittoria.

Nei negozi c’è di tutto, osservatori disinvolti e veloci si sono detti “ma quale blocco !”. Non si sono accorti che mancano i clienti. Ci sono fondi di magazzino accuratamente gestiti e, soprattutto, i prodotti di quell’industria dei miracoli che sono i tunnel tra Rafah e l’Egitto. Ci passa di tutto e, dal loro lato, gli egiziani chiudono un occhio perché quel traffico è una flebo all’economia nazionale dissanguata e la gente è già abbastanza incazzata col regime. Lo scenario è fantastico. Dove qualche anno fa avevo visto case, per quanto squarciate e sforacchiate dai continui bombardamenti, ora c’è una distesa desertica, con tanto di dune. I palazzi di Rafah sono stati polverizzati da Israele, puro genocidio nascosto dietro l’accusa che da lì sparavano i cecchini dell’Intifada. Contro chi avrebbero sparato se dall’altro lato del muro c’era l’Egitto? Un chilometro quadrato di case non c’è più, ma le dune sono montagnole di terriccio di risulta, tirato fuori da una megalopoli di talpe. Tra duna e duna, a perdita d’occhio, si ergono tettoie di tela blù, piccoli cieli che coprono buchi ben foderati da sostegni, muniti di carrucole e scale verso lo sprofondo, con uno in cima che radioparla con quello là sotto, a trenta e più metri, all’imbocco di un percorso viscerale di chilometri. I ragazzi che scavano rischiano ogni secondo del giorno e della notte la vita, un giorno su due gli F16 si accaniscono, a volte il soffitto crolla solo per le vibrazioni. Nei pochi giorni della nostra presenza ne sono stati sepolti vivi otto mentre tentavano di procurare da mangiare alla loro gente. Erano 1.400 i tunnel, si mormora e i killer impuniti ne avrebbero sfasciato 700, subito riscavati e moltiplicati. Alcuni sono gestiti da Hamas e per quelli passano i generi di prima necessità, quelli della sopravvivenza accessibile a tutti. Gli altri sono di occhiuti imprenditori che con gli “spalloni” ricavano profitti non indifferenti. Sono per il passaggio di beni durevoli, elettrodomestici, vestiario, computer, telefonini, mobili, carburante, il ben di dio che straripa dai negozi, ma che nei negozi perlopiù rimane perché i soldi non ci sono. Il premier Haniyeh, fatto un giro per le capitali arabe e musulmane. Dal senso di colpa di sceicchi, emiri e despoti aveva saputo spremere un paio di milioni di dollari. Gli egiziani a Rafah glieli hanno sequestrati e congelati nelle loro banche.

La sicurezza viene sopraffatta dall’orgoglio per quell’impresa prometeica e una talpa mi invita a entrare sotto il telone e ammirare il buco col compagno in fondo rivelato dalla torcia e che mi grida “Welcome, chefelhal”, come stai? Ma subito interviene un capo-vigilanza di Hamas e mi intima qualcosa. Per fortuna c’è Majid, giovanissimo giornalista che, grazie a Arrigoni ho conosciuto e che è stato il mio intelligente, affettuoso e competente Virgilio nel percorso lungo i gironi dell’inferno Gaza. Spiega all’ufficiale che ci si può fidare, che sto dalla loro parte e tutto si risolve in un abbraccio. Del resto non c’è nulla che io abbia visto che non possano vedere gli strumenti su quel dirigibile israeliano che troneggia nel cielo su tutta Gaza. A una cinquantina di metri dalla lunghissima barriera di cemento che, lungo sette chilometri, separa il mondo concentrazionario di Gaza dal resto del mondo, occhieggiano binocoli egiziani.

Gaza è sdraiata sulla costa di un Mediterraneo che al popolo carcerato dovrebbe offrire qualche
ora d’aria. Ne ricaverebbero un dieci per cento della loro dieta. Niente ora d’aria. Gli accordi truffaldini della famigerata Oslo avevano assicurato ai pescatori di Gaza venti miglia nautiche. Israele le aveva subito ristretto a 12, poi a 6, ora a tre. Fondali impervi ai pescherecci più grandi, micragnosi di minuta raccolta per le barche minori. Giriamo il porto tra moli scaraventati per aria e nel mare dalle bombe e naviglio stracciato dai proiettili del mare. Uscendo in mare con i pescatori, lo stesso Arrigoni s’è visto sparare e poi catturare. Decine i pescatori feriti. Nel 2000 c’erano 10mila pescatori, oggi sono entrati nell’80% di senzalavoro. Ne restano 3.500, ma pochi scendono fin qui a contemplare le reti lacerate e il naviglio spaccato in due. Del resto, dov’è la nafta per far andare i motori? Qualcuno ha provato con l’olio vegetale, dopo un po’ i motori si sono fermati, prima che gli sparassero addosso. Non arriva pesce e la proteina da pollame o ovini l’abbiamo vista maciullata negli allevamenti disintegrati. Gaza abbisogna di 20mila tonnellate di pesce che si ottengono da un’ottantina di uscite al mese. Nel 2008, col blocco appena attenuato, le uscite, a rischio di fucilazione, si erano ridotte a dieci e il pescato a 3.000 tonnellate. In compenso le acque territoriali di Gaza vengono invase e saccheggiate da pescherecci israeliani ed egiziani. Si calcola in 10 milioni di dollari il danno inflitto dall’aggressione al’industria della pesca. Mettiamoci un 20% dei terreni agricoli distrutto, il 18% degli orti e delle serre, è arriviamo a una carenza di alimenti del 30% e passa. La morte per fame ha cominciato a mordere.

Il Dr. Ahmed dell’ ospedale Al Shifa, zeppo di madri in nero, mogli, sorelle, figlie, che frusciano per corridoi e corsie ad assistere i divorati dai licantropi del fosforo e delle “Dime”, mi conferma quanto già aveva rivelato la rivista medica “Lancet”: “Dopo una laparotomia primaria per ferite che parevano relativamente piccole e poco contaminate, un secondo intervento ha rivelato aree crescenti di necrosi dopo un periodo di tre giorni. Poi la salute si deteriora e entro dieci giorni necessita un terzo intervento che mette in luce una massiccia necrosi del fegato o di altri organi. Il fenomeno è accompagnato da emorragie diffuse, collasso renale, infarto e morte”. Ho potuto vedere, tra ospedali della Mezzaluna rossa palestinese al Cairo, Al Shifa e l’ospedale Al Adaw di Gaza gestito dall'Unione dei Comitati degli Operatori Sanitari (Fronte Popolare), vittime delle bombe al fosforo, delle bombe ad altissimo potenziale, bombe a implosione che bruciano l’aria e carbonizzano i polmoni, bombe a grappolo per bambini, bombe a freccette per innocenti da crocifiggere. Ho visto corpi che parevano i quarti di bue un tempo appesi alle nostre macellerie. Ho visto la pallida Dima di tre anni, bianchissima, con gli occhi chiusi e metà calotta cranica rubata da un israeliano. Alla seconda speranzosa visita, il giorno dopo, era finita tra i nomi mai scritti nel sacrario inesistente dei milioni dell’olocausto arabo.

Sono con Majid, uno che di Gaza conosce tutti gli orrori, dolori, onori, a casa del Dr. Ezzedine Abu Laish. Ezzedine stava al telefono con la televisione israeliana, perché raccontasse ciò che gli veniva sbranato attorno. Sono stati proprio gli israeliani a chiedergli una diretta. Ma quel racconto non doveva passare. Probabilmente era una trappola: la misura della mostruosità. Un missile gli si è infilato in casa e ha squarciato, sotto i suoi occhi e nel mezzo della trasmissione, tre figlie, bambinette tra i due e i sette anni. Mi fa visitare la stanza il fratello Risik, cui nello stesso momento avevano ammazzato la quarta bambina. Materia cerebrale e macchie di sangue di Bisan, Majar, Eia e Nur sono finite sui pavimenti e sulle pareti, traffite anche da cento buchi da mitraglia: l’infanticidio, pratica corrente di Israele, doveva essere assicurato: “Il mondo, Israele vorrebbero che gli dicessimo “grazie” per aver sterminato la nostra famiglia, che chiedessimo scusa per essere ancora qui, su un pezzo della nostra terra. Ma, se mai avessi pensato in passato di scappare da qui, ora che questa terra accoglie le mie sorelle, non me ne andrò mai, a costo di finire accanto a loro”. Così parlò Rafah, la figlia maggiore di Ezzedine.

Mentre sto per affrontare il ritorno dall’inferno e dall’orgoglio, dalla gentilezza e dal “restiamo umani” sparato da Vittorio in faccia ai disumani, giunge la notizia che al Cairo le formazioni rivali, Fatah e Hamas, stanno discutendo una riconciliazione nazionale e un governo di unità. Lo impone il ricatto di quella criminalità organizzata che si fregia del titolo di “comunità internazionale”. I miliardi donati andranno solo al quisling Abu Mazen e Hamas e gli altri potranno partecipare se si piegano all’egemonia dei collaborazionisti vendipatria. La vedo difficile, demoni e acqua santa.
Ma il portavoce del governo Hamas, Taher Anunu, negli uffici del ministero dell’informazione, si mostra fiducioso. E’ un omino sottile e affabile, dal naso puntuto e con una barbetta risparmiosa. Parla un inglese da Foreign Office: “Il popolo vuole questa riconciliazione, ce lo chiedono le masse, e nessuno s’illuda, noi abbiamo vinto e gli altri hanno perso, oggi più che nel 2006 quando stravincemmo le elezioni in tutti i territori occupati. Ci chiedono di riconoscere Israele? Israele ha mai riconosciuto uno Stato a coloro cui hanno rubato tutto, violando ogni singola norma del diritto? Il processo di pace per Israele non è mai cominciato, come può proporcelo ora il gruppo dirigente dell’ANP mentre a Gerusalemme e in Cisgiordania si moltiplicano gli espropri, le espulsioni e gli insediamenti dei coloni? L’unità si potrà fare nei termini come lo ha sempre voluto il nostro popolo, un popolo che ci ha premiato perché resistiamo e perchè la resistenza è l’anima stessa della nostra gente. Ricostruiremo questa terra, ma alle condizioni di chi non si è mai arreso. C’è un intero mondo arabo e islamico, tutto il sud del mondo, là fuori, che sta con noi nei sentimenti e negli obiettivi”.
Non menziona l’Iran, Anunu, forse consapevole che l’appoggio, più che altro diplomatico, di Tehran è a tempo, fin quando agli ayatollah converrà giocare anche su questo tavolo. Forse Hamas ha intuito che di un sostenitore che in Iraq si adopera in connubio con gli occupanti a decimare un popolo e rapinarne la terra, c’è poco da fidarsi strategicamente. Forse intravvede quella tenaglia che Iran, Israele ed Egitto, stanno stringendo intorno alla nazione araba e che è sulle masse di quella nazione che conviene contare. Incombe il pericolo che l’Iran, accomodatosi una volta di più con gli Usa di Obama, dopo l’Iraq anche per l’Afghanistan, abbandoni i suoi amici in Libano e Palestina al loro destino. Ma si può essere sicuri che questo non minerà la determinazione di Hamas e del popolo che le formazioni islamiche e i loro alleati laici hanno guidato alla resistenza. Abu Mazen è un morto politico che cammina, come i fantocci Karzai e Al Maliki, mentre all’orizzonte lumeggia una rabbia araba che custodisce ancora in seno il seme della grande lotta vittoriosa di decolonizzazione, la consapevolezza e la volontà di un destino dettato dalla storia e dalla giustizia.

Uscendo dall’ufficio del portavoce Hamas m’imbatto in un bizzarro e saggio personaggio, tutto avvolto in bandiere multicolori, quelle delle varie fazioni che, dalla nascita della Resistenza in poi, dagli anni ’60, esprimono il creativo pluralismo culturale, sociale, ideologico della società palestinese, ma anche una rivalità spesso astiosa e violenta che non ha per niente avanzato la causa della liberazione. E’ attorniato da una folla di persone che lo applaudono, il suo nome è Yasser Meheissen, ma lo chiamano “Sceicco dell’unità nazionale”. Ha raccolto in una settimana nella sola Gaza ben 270mila firme sotto un appello che chiede, esige, dalle forze politiche una riconciliazione, una grande unità di movimento per la liberazione. Ovviamente senza la cricca dei manutengoli di Israele a Ramallah. E’ la punta di un iceberg, questo “sceicco”. Ci sono gruppi politici italiani che, per deformazione ideologica, snobbano Hamas e in Palestina si rivolgono rigorosamente solo alle formazioni considerate affini. Dovrebbero ascoltare Abu Ala, un tempo combattente di Fatah e ora, a sostituire uno stipendio che è svaporato, l’autista che, instancabile, mi accompagna da un capo all’altro di Gaza. La cricca dei collaborazionisti corrotti che in Cisgiordania fanno il lavoro sporco di Israele gli fa schifo, non la considererà mai più la sua dirigenza. Ma mi assicura che la base di Fatah la pensa come lui e come lui ha partecipato alla resistenza contro il nemico insieme a Hamas, alla Jihad, ai Comitati Popolari, al Fronte Popolare e al Fronte Democratico. E’ certo che il redde rationem verrà per Abu Mazen come per Israele. I realizzatori dell’unità saranno tutti gli Abu Ala di Palestina. Le sinistre palestinesi devono contemplare il proprio fallimento, non dissimile da quello in Italia, la spossatezza di chi e rimasto troppo a lungo sotto l’ombrello lacero dell’ANP. E a Gaza ne sono consapevoli più che in Cisgiordania, dove si vive sotto la ferula del Grande Venduto. Se si realizza la speranza del rilascio dai suoi sei ergastoli di Marwan Barghuti, leader della seconda Intifada per Fatah, duro critico delle degenerazioni in alto della sua organizzazione e autore dal carcere della piattaforma per l’unità, la strada per il coordinamento operativo e politico si accorcerà di molto. Con effetti dirompenti anche sulle motivazioni delle masse arabe, in rivolta ai tempi del massacro. Sono perciò sgradevoli gli incontri con chi, in Egitto, pretende di rappresentare, con risentimento e spirito di rivalsa, quelle forze di sinistra, magari nel nome della laicità e del marxismo. Lenin ha insegnato cose diverse quando si tratta della lotta di un popolo per la sua di liberazione, tanto più se è vero, come è vero, che Hamas è il proletariato e il sottoproletariato in Palestina, Fatah di Abu Mazen è tenuta in piedi dalla borghesia compradora e asservita, parte dell’intellettualità si rifugia nelle sinistre. E quando questi interlocutori, al Cairo o a El Arish, ci hanno tempestato di virulenti e sospetti insulti e calunnie contro Hamas, spesso di pretto stampo israeliano, se ne può comprendere la frustrazione, ma se ne deve respingere lo squallido solipsismo. E’ nel contesto della lotta araba, di tutto il sud del pianeta, che vanno inserite Gaza e la Palestina, non nelle sterili e autoreferenziali affinità ideologiche. Lo sapeva bene George Habbash, fondatore e segretario del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. C’è poi la crisi dell’intero mondo capitalista e imperialista e non sarà facile per gli Usa, scossi da una popolazione che deve rinunciare a casa, cure e beni per finanziare la voracità predatoria della sua elite, mantenere quella munificenza nei confronti di Israele senza la quale quel paese non reggerebbe un giorno.

Gaza ha segnato l’inizio della fine per Israele. Respinto e umiliato dalla resistenza in Libano, ci ha provato con la sua quarta potenza militare mondiale a spazzare via la striscia di terra più popolata del mondo, con la scusa di fermare quattro razzi alimentati da fertilizzanti, di incerta mira sulla terra rubata ai palestinesi. Non sono riusciti nel’intento, hanno rafforzato un avversario che non è che l’articolazione della rivolta universale degli oppressi e perseguitati. Le orrende nefandezze compiute hanno colmato la misura, fatto cadere la maschera del grottesco vittimismo, rivelato l’oscena nudità del re. E con la frantumazione dell’icona Israele se ne va anche il Grande Inganno di Oslo, la oslozzazione delle prospettive palestinesi e delle coscienze che quelle prospettive formulavano, sia in Palestina che tra i suoi sostenitori all’estero. Gaza ha vinto anche perché ha spazzato via la nebbia obnubilante di questa oslozzazione ideologica, la gigantesca truffa dei “due Stati per due popoli”, uno slogan sotto al quale veniva occultata una pulizia etnica storica e la costante strategia israeliana di creare fatti irreversibili sul terreno cianciando ai gonzi di “Stato palestinese accanto a quello ebraico”, a conferma che ai “due Stati per due popoli” i sionisti della “Grande Israele” non hanno creduto mai. Le sinistre, i democratici, i progressisti nel mondo vi si cono accucciati a copertura della propria impotenza e ignavia, come se il fallimento dei bantustan in Sudafrica non avesse insegnato nulla. I segni della svolta sono infiniti e si moltiplicano, dal comune sentire di un’opinione pubblica non più integralmente manipolabile, alla rivolta dei correligionari in tanti paesi contro lo Stato sionista, dalla condanna di istituzioni universali come l’Assemblea generale dell’ONU, o la Commissione ONU per i diritti umani, ai tanti tribunali che si aprono sui crimini dello Stato Canaglia, all’ incondizionata solidarietà di tutti i Sud del mondo. Oggi si parla di “liberazione”, non più di Stato nei territori occupati, o di quanto ne resta dopo le ultime abbuffate israeliane. L’esito non può che essere lo Stato Unico di chi ci vuole vivere. 9 milioni di palestinesi di sicuro.

Mentre mi avvio, con un po’ di morte e un po’ di nuova forza nel cuore e con un paio di curiosi ed entusiastici compagni di un centro sociale romano al Prenestino, a riaffrontare l’ottusità scaltra della dogana egiziana (ma il solito Majid li ingarbuglierà di chiacchiere ancora più scaltre e ci farà passare a razzo), incrociamo il lunghissimo serpente della colonna di George Galloway. E’ come l’ingresso di Cesare a Roma, di ritorno dalle Gallie. O, piuttosto, come il corteo dei partigiani del CLN, guidati da Cadorna, Longo e Parri, per le vie di Milano liberata. Attorno alla carovana del coraggioso deputato britannico si affolla una mare di gente festante, tumultuante, barbuta e non barbuta, senza distinzione di fazione, l’autentica, unitaria massa resistente palestinese. La hubris israeliana, l’ignoranza dei limiti da psicopatico impunito, si metamorfizza in nemesi. Dopo il fallimento dell’invasione genocida che doveva farla finita con Hamas e ne ha invece imposto il riconoscimento anche a gran parte del mondo ufficiale, lo spappolamento del blocco genocida. Una fine dell’embargo per ora solo politica, ma è quella più importante perché non può non preludere alla fine dello strangolamento economico. Su un grande piazzale al centro di Gaza City, Galloway e i suoi rompighiaccio umani sono festeggiati dai dirigenti del legittimo governo palestinese. La sensazione di non essere più soli e vituperati, al massimo compianti, ha l’effetto di una tracannata di champagne. Anche su di noi, che palestinesi cerchiamo di essere. Nella Camera dei Comuni a Londra alcune dozzine di deputati formano una coalizione contro l’assedio e per la Palestina. Il treno della pulizia etnica mascherata da “processo di pace” è arrivato al capolinea. Signori si cambia.

I palestinesi, gli arabi, i popoli del sud restano umani. L’odio, la prevaricazione non fanno parte del loro bagaglio etico e politico. Il nemico lo combattono, diversamente da lui capaci di morire nel nome della comunità. A tutti gli altri sorridono. Il sorriso, compreso quello dei nerovestiti e barbuti militanti di Hamas che si fanno fotografare, a te abbracciati, agli angoli delle strade, ti circonda come l’aria nella Gaza delle rovine, dei forni crematori al fosforo, delle camere a gas al tungsteno e all’uranio, delle famiglie dimezzate, delle talpe della vita. Welcome ti gridano gli scolaretti in ansia di foto che ne confermi l’esistenza, welcome, benvenuto, ti arriva a pioggia dai frequentatori dell’Internet Point alla ricerca di comunicazione con il mondo precluso e dall’addetto alla gestione, che ti offre da bere dalla sua tazza di caffè, dal pescatore che ricuce per la millesima volta la rete strappatagli dalle cannonate, dal mutilato senza gambe di Al Shifa, dalla signora velata che raccatta rametti nella foschia della polvere che le sue mani suscitano dalle macerie. Ma anche dal poliziotto egiziano a Rafah che, al tuo ritorno, si compiace con te per essere riuscito a raggiungere i fratelli che il suo tiranno gli nega. Che altro possiamo rispondere se non welcome Gaza, welcome Palestina, welcome arabi, da Baghdad a Gerusalemme. La lotta dei palestinesi è la lotta dell’essere umano per la dignità, per la continuità della specie su questo pianeta, per la civiltà contro le barbarie, per l’uomo come lo concepiva il Che Guevara.

I cananei, primi abitanti di Gaza e antenati dei palestinesi, hanno dato a questa terra di congiunzione tra Africa e Asia, fucina e ponte di culture nei millenni, un nome che significa “forza”. I persiani la chiamavano Hazatote, che vuol dire “tesoro”. Il simbolo di Gaza è la fenice che risorge dalle sue ceneri. A Gaza abbiamo capito perché.