lunedì 30 gennaio 2012

Riepilogando



La propaganda sta alla democrazia, come il randello sta a uno Stato totalitario. (Noam Chomsky)


Per un fascista il problema non è mai quello di presentare la verità al pubblico, ma come utilizzare al meglio l'informazione per convincere il pubblico a dare al fascista e al suo gruppo più denaro e più potere.(Henry Wallace)


Il popolo americano è libero di fare esattamente ciò che gli si ordina. (Ward Churchill)


Inserisco in fondo una mia intervista che magari non dice granché di nuovo, ma può rinfrescare le idee.

L'impegno per finire presto il montaggio del film su Siria e guerre Usa negli ultimi vent'anni non mi permette di fare grandi chiacchiere su quanto accade tra la guerra interna contro di noi e quella esterna contro i popoli del Medio Oriente  condotte dalla stessa cupola di narcofascisti. Che siamo nella stessa bratta, affogativi dallo stesso nemico, con la vitale necessità di  urgente e indispensabile unità tra noi pensionati, contadini, ambientalisti, operai, studenti, Forconi, precari, cacciati da lavoro o casa, sventrati da destra e sinistra, addirittura rastrellati in retate, ma già un po' forconizzati, e i libici, i siriani, gli iracheni, gli assopiti palestinesi e tanto altro Sud del mondo, che siamo alla resa dei conti finale, lo hanno capito gli Occupy dell'Occidente, compresi quei ragazzi che ieri a migliaia hanno manifestato a Londra contro le minacce e aggressioni a Siria e Iran. Su questo, invece, da noi tutto tace. 




 Intanto i media con l'elmetto strombazzano di rivolte armate in atto e di sanguinarie repressioni nella cinta periferia di Damasco. Può darsi. Ma dicevano le stesse cose di Damasco e Homs quando giracchiavo da quelle parti io. E tutto era calmo. Comunque, da fonte diretta apprendo che è in atto un'operazione di stanamento dei mercenari e islamisti armati da parte della forze di sicurezza. A Jamarana, Duma, Harasta, roccaforti dei fanti Nato-Qatar, la notte scorsa si sentivano spari. Due RPG sono stati sparati contro il convento dove suore cattoliche curano un orfanatrofio. Si sta avverando quanto un parrocco del quartiere di Bab Duma, nella Damasco vecchia temeva, insieme ai suoi fedeli, in massima parte profughi  dalla caccia ai cristiani messa in atto dagli sciti del regime di Baghdad: che l'integralismo islamico e Al Qaida, scatenati dagli emiri e dalla Nato, riducono la Siria libera, laica, progressista e multiconfessionale in un dittatura della Sharìa. 


Quello che invece i cortigiani embedded non strombazzano sono le immagini di armi israeliane che le forze di sicurezza siriane continuano a sequestrare ai "pacifici manifestanti", o le scene di sangue e distruzione che provocano in città gli attentati dei noti maestri del terrorismo.

Eppure per una volta il grande disordine sotto il cielo ci prospetta davvero una situazione simpatica: La feccia reazionaria e Usa-prona che domina la Lega araba, e il Qatar del tagliagole emiro Al Thani che s'è fatto vendere la presidenza temporanea della Lega dai palestinesi (bravi, eh?) sono nel marasma. Tra sabato e oggi, in preda al panico, da quella discarica di rifiuti tossici sono partite due decisioni storiche, una il contrario dell'altra. Il pupazzo a capo di questa congrega di despoti feudali, El Arabi (nomen non sempre omen), pressato dalle due dittature cripto-Nato Qatar e Arabia Saudita, ha di sua iniziativa richiamato gli osservatori dalla Siria. Mossa disperata contro il Consiglio Ministeriale della stessa Lega che, con 4 voti contro 1 (Qatar), ha convalidato la relazione della missione. e l'ha prolungata di un mese. Come già accennato nel precedente post, gli osservatori, per quanto abbiano girato il paese per 35 giorni in piena libertà, hanno confermato in massima parte la versione dei fatti da 10 mesi diffusa (e per chi volesse intender, documentata) dal governo siriano, compresa la denuncia dei gruppi armati infiltrati nel paese che sparano su folla e forze dell'ordine e compiono attentati terroristici e atrocità sui civili. E compresa anche la validità delle riforme proposte e avviate da Assad  e che i ratti hanno sistematicamente respinto.

Tutto questo ha effetti catastrofici, non tanto su di noi, imbavagliati e ottenebrati dal consenso bellico dei media, dei partiti e di quel fulmine di guerra in poltrona che è il nostrano godmansachsiano, quanto sui satrapi arabi e su chi, atlanticamente, se ne avvale come mercenariato contro quanto rimane di area mediorientale libera, decente, sovrana, umana.
Io che conosco i miei polli semiti (intendo quelli veri, non quelli surrogati), posso garantire che avrà più effetto sui popoli arabi la relazione degli osservatori (per quanto occultata dalla presidenza della Lega e neanche pubblicata in arabo, ma lì il passaparola, ora anche elettronico, funziona alla meraviglia), di mille tricche e balacche sparate dagli emiri attraverso le emittenti Al Jazira e Al Arabiya. 


E' un passaggio questo, come la straordinaria compattezza e resistenza dei siriani, che gioca a favore delle primavere arabe, quelle antiche e quelle nuove, purchè autentiche. Lo vogliamo capire, o no, che la resistenza libica, il popolo siriano e, con tutte le sue contraddizioni, l'Iran, lottano anche per noi, lottano contro l'armagheddon dei dementi cavalieri dell'apocalisse? E se sanguinano, sanguinano anche per noi. La buona educazione non insegnerebbe a ricambiare?  

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Pubblicato da PaoloMossetti il 28 gennaio 2012. 
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Dispacci settimanali – “Impartiality didn’t even cross our minds”: intervista a Fulvio Grimaldi



Da Informare Per Resistere
Di Fulvio Grimaldi si racconta poco, sulle pagine dei grandi quotidiani e sulle riviste patinate e nelle trasmissioni televisive che contano, perché forse ci sarebbe troppo da raccontare. La sua è una carriera sterminata che copre quasi sei decenni di storia di Italia e del mondo: è stato giornalista per la BBC, inviato del Paese Sera e di Liberazione, l’unico testimone italiano al Bloody Sunday del ’72, scrittore per Lotta Continua, documentarista incallito e sempre sul campo, allergico agli hotel e alle cronache per interposta persona, ha vinto cause per ingiusto licenziamento, ha sbattuto la porta della RAI dov’era un rispettatissimo e temutissimo corrispondente di guerra. E’ stato persino teatrante di strada con Gian Maria Volonté, compositore di canzoni rivoluzionarie, e attore per Elio Petri: suo il cameo del giornalista Patané – sguardo penetrante e folta chioma rossa – ne L’Indagine su un cittadino. Ha seguito innumerevoli conflitti: dall’Irlanda del Nord alla Palestina, dall’Iraq alle guerre in Jugoslavia. Ad un giornalista inglese che lo intervistava come rappresentante di quel giornalismo “that is passionate, that does not shy away from the graphic horror of war, and that resists the pretence of neutrality in times of barbarism”, Fulvio ha detto:


“…impartiality didn’t even cross our minds… we belonged to the running and screaming and falling and dying”.


Fulvio Grimaldi, quando hai iniziato a seguire la Libia? E perche’?


Seguo tutto il Medio Oriente dal 1967, quando Paese Sera mi mandò come inviato di guerra alla Guerra dei Sei Giorni in Palestina. La regione mi interessa perchè penso che il mondo e la società arabe siano da sempre il massimo obiettivo colonialista dell’imperialismo occidentale e abbiano reagito con le risposte più originali e valide.


Ci spieghi perché è scoppiata questa guerra?


Perché la Libia non si lasciava inserire nei progetti della globalizzazione e aveva scelto un percorso antimperialista e anticapitalista. Sembra una semplificazione ma è così. Perché aveva sviluppato una società di forte giustizia sociale, nonostante tutti siano pensino che questa sia propaganda di Gheddafi. Perché aveva sostenuto tutti i movimenti di liberazione del mondo. Perché lavorava per l’unità e l’indipendenza africana. Perché aveva petrolio e acqua. Perché ostacolava la normalizzazione coloniale della regione.


Ma perche’ e’ tutto precipitato nel 2011? Qual e’ stata la debolezza di Gheddafi? E qual e’ la differenza tra la guerra civile libica e le altre primavere arabe? 


E’ successo ora perchè la primavera araba ha fornito l’occasione per confondere le idee alla pubblica opinione, mettendo sullo stesso piano le rivolte contro satrapi servi dell’Occidente che avevano ridotto i propri popoli in rovina e il colpo di Stato dei mercenari Nato contro un paese renitente all’ordine mondiale globalizzato e che forniva un modello contagioso di giustizia sociale e indipendenza.


Che paese era la Libia di Gheddafi che hai conosciuto?


Un paese di alto livello democratico, con un processo decisionale strutturato sulla partecipazione diretta del popolo. Un paese pacifico e felice, progredito enormemente sul piano industriale e culturale. Un paese a cui l’ONU aveva riconosciuto il primato africano dell’Indice di Sviluppo Umano: emancipazione delle donne, alta aspettativa di vita, bassissima mortalità infantile, servizi pubblici gratis, casa e lavoro per tutti, due milioni di immigrati con gli stessi diritti dei cittadini.


Puoi spiegarci meglio questo passaggio sulla partecipazione diretta del popolo? 


In Libia esisteva dalla rivoluzione Al Fateh del 1977 un sistema di democrazia diretta, fondata sui comitati popolari in cui tutta la popolazione di città quartieri, luoghi di lavoro, villaggi, fabbriche partecipava al processo decisionale sulle proprie questioni. Il sistema era piramidale e arrivava al Congresso Nazionale, praticamente il governo della Jamahiriya, che proponeva le linee generali di politica nazionale e internazionale. Gheddafi non aveva nessuna carica istituzionale, solo un’enorme autorità morale, in quanto padre della patria.


Com’era l’atmosfera che si respirava nel Paese, nei giorni della Guerra civile? Vorrei essere preciso: e’ corretto chiamarla ‘guerra civile’?


Quello che ho visto nelle settimane trascorse a girare la Libia libera era un paese schierato incondizionatamente e appassionatamente per il suo leader, Gheddafi, in difesa della sua libertà, dignità, scelte sociali, combattivo, eroico per aver resistito quasi disarmato alle ventisette potenze militari più forti del mondo e ai suoi mercenari di terra. Non era certo una guerra civile quella tra alcune migliaia di integralisti islamici, terroristi Al Qaida, rinnegati della Nazione, truppe speciali Nato e del Qatar, e la stragrande maggioranza della popolazione. Era il solito colpo di Stato Nato travestito da rivolta democratica.


Se l’atmosfera era così pacifica come tu dici, perché i primi focolai di ribellione scoppiati a Bayda, Derna, Bengasi tra il 13 e il 16 Gennaio sembrano aver trovato appoggio da parte della popolazione locale? E che succede da lì fino al 15 febbraio, ‘Giorno della Rabbia’ e inizio ufficiale della guerra civile (o golpe)? Vorrei capire fino a che punto la rivolta è stata etero-diretta e quanto invece auto-diretta… 


La Nato ha immesso i suoi mercenari Al Qaida e qatarioti in una situazione, la Cirenaica, in cui storicamente esistevano espressioni di opposizione islamista e fondamentalista alla Libia laica e socialista. Ha fatto leva su queste nicchie, come su elementi che pensavano all’Occidente capitalista come a un Begodi. Nelle città da te menzionate si sono subito insediati emiri integralisti che proclamavano l’emirato islamico. Se fosse stata una guerra civile con partecipazione di massa, non ci avrebbe messo 8 mesi per rovesciare il governo e solo grazie agli stermini bombaroli Nato. I “ribelli”, pur dotati dalla Nato di ogni arma pesante, non hanno mai vinto una battaglia contro le forze lealiste. Per dire che genere di umanità fossero, bastano il linciaggio di Gheddafi, lo spaventoso pogrom contro i libici neri e la caccia al gheddafiano da bruciare vivo, smembrare e esporre.


Hai conosciuto gli italiani che in Libia vivono e lavorano? Credo che non si sappia molto su di loro…


Conosco Valentino Parlato, nato in Libia e tra i pochi giornalisti non venduti alla propaganda. Ho anche conosciuto dei voltafaccia che prima si erano approfittati dei rapporti con la Libia e poi l’hanno pugnalata alle spalle.


Tripoli viene descritta dal Guardian come la Pyongyang del Nord Africa. Come passavi le tue giornate durante il conflitto? Che impressione hai avuto della citta’? 


Domanda un po’ curiosa a un inviato di guerra. Pyongyang è un paragone strumentale e malevolo. Penserei piuttosto a Fallujah e Jenin, altre città martiri della Resistenza ai barbari.E anche a questa ho già risposto. Giravo, incontravo, filmavo, intervistavo. Tripoli era diventata una città urbanisticamente splendida. L’ho vista ridurre in cenere con donne e bambini disintegrati. Strano che i miei colleghi dei grandi media non l’abbiano visto. Erano lì…


Qual’era il tuo rapporto con le autorita’ civili e militari libiche? Ti sei sentito ristretto nella tua liberta’ d’azione e di comunicazione con l’estero?


Nessuna difficoltà a comunicare con l’estero. Eravamo in Stato di guerra, con spie che imperversavano travestite da giornalisti o uomini d’affari, o Ong. Qualsiasi paese pone restrizioni ai movimenti in simili condizioni. Io ero comunque libero di scegliere dove andare, con chi parlare, chi visitare, chi e cosa riprendere. Mi accompagnavano interpreti e guide. Forse erano agenti, ma non mi hanno mai impedito di scegliere i miei interlocutori e luoghi, di fare domande e ottenere risposte.


So che hai realizzato recentemente un documentario sulle rivolte medio orientali e nordafricane…


Sì, e consiglierei tutti a documentarsi meglio, fuori dalla nebbia dei media embedded, dando uno sguardo sia al mio docufilm “Maledetta Primavera”, sia al mio blog, sia alle numerose fonti attendibili presenti in rete.


Penso che non sia impossibile andare a vedere e descrivere un paese prospero, libero, dignitoso, ridotto in schiavitù dalla civiltà occidentale, dai suoi vampiri multinazionali e dai loro mercenari integralisti. Che del resto si stanno già sbranando tra di loro per il bottino, mentre la resistenza patriottica cresce di giorno in giorno. Come non riesce a vincere in Iraq o Afghanistan, l’imperialismo non riuscirà a vincere neanche in Libia. Del resto deve vedersela con rivolte di massa interne che sono stufe di perdere ospedali e scuole a vantaggio di cacciabombardieri e forze speciali.

martedì 24 gennaio 2012

Siria, Iran Libia, Italia: grisaglie e jallabieh alla guerra mondiale





Nessuno è più schiavo senza speranza di coloro che falsamente credono di essere liberi. (Wolfgang Goethe)


La libertà di stampa è garantita solo a quelli che la posseggono. (A.J.Liebling)


Il pregiudizio, che vede quello che gli piace, non sa vedere ciò che è evidente. (Aubrey T. De Vere)


Maroni, il miglior ministro dell’interno da sempre. Israele, il miglior esempio di Stato per legalità e sicurezza. Vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell’antimafia di Giorgio Almirante. (Roberto Saviano)


Libia: Bani Walid riconquistata, si combatte in tutto il paese, il CNT si spappola, l’aiutante di campo Nato, Monti, elemosina briciole dai ratti a Tripoli, sbarcano 12.000 marines per proteggere il bottino petrolifero dagli attacchi della Resistenza., i vari terroristi Al Qaida si sbranano tra di loro.


Siria: il caposservatore della Lega Araba conferma la normalità e denuncia le esagerazioni dei cospiratori, la calma si estende in tutto il paese, i russi forniscono Mig23 a Damasco, si va verso le riforme di Assad, sempre più evidente il protagonismo di mercenari esterni e dei loro sponsor, l’emiro del Qatar si sputtana visitando Israele.


Me lo devo togliere subito un peso sullo stomaco che, scusate il tecnicismo, fa letteralmente cagare. Dopo ci sono un sacco di ottime notizie. Visto che le cose stanno andando maluccio per gli uccellatori, in Libia, Siria, perfino da noi, ecco che, nelle loro gabbie, con la promessa di razioni suppletive di miglio, vengono attivati i canarini canterini perché alzino il volume del loro squittìo. Fuor di metafora sono quelli che, sotto mentite spoglie, gracchiano vacue genericità contro il mostro delle guerre e oppressioni, per poi precipitarsi a lisciargli gli aculei e lucidarne le zanne con giuramenti di incrollabile adesione al suo principio guida: satanizzare le vittime da cannibalizzare. E’ la metastasi di sinistra diffusasi a partire dal nè-né jugoslavo: né con la Nato né con Milosevic, e poi né con la Nato né con Saddam, né con la Nato né con i Taliban, né con la Nato né con Gheddafi, né con la Nato né con Assad, né con la Nato né con Ahmedinejad. E poi né con Monti, né con i Forconi (viva i Forconi, alla faccia dei seccatissimi radical-chic del “manifesto” che abbaiano, in coro con i confindustriali e il regime di polizia, contro le infiltrazioni mafiose del movimento. Intanto è fisiologico che si cerchi di infiltrare e manipolare ogni buona lotta, vedi le primavere arabe, ma vuoi mettere le infiltrazioni mafiose, quelle di alto bordo, di coloro che gridano all’infiltrazione dei Forconi?) Quale è il bidoncino dell’immondizia, accanto a quelli di vetro, metallo, plastica, carta, per questi scarti della storia, utilizzati come stracci per pulire le strade della guerra e del sangue? Quello dei rifiuti tossici e ospedalieri?

Nella sua sciropposa trasmissione speciale su RAI 3, per l’addio dalle scene dell’onesto dabbenuomo Ivano Fossati, come aveva già voluto delinquere, prendendoci alle spalle con Saviano in “Vieni via con me”, il melenso lecchino di mille marchette politico-commerciali, Fabio Fazio, ha tirato fuori da sotto il collettino incravattato, sovrastato da pelo di topo, il costume di rettile. Mentre ci trovavamo mellifluamente dondolati da tenere armonie di pace, amore, bene e mare, rassicurati da Fiorella Mannoia e Zucchero, quindi del tutto inermi, ecco che irrompe un drone Nato-Cia-Mossad con la faccia di Fazio che ci tira addosso il missile di un ragazzetto sprovvisto di italiano, ma promosso a gigolò, che legge una patetica storiella scritta in punta di penna di Liala, in cui si narra degli orrori dei Taliban. I cattivissimi (buonissimi al tempo della cacciata dei sovietici) dai quali il poveretto ha dovuto fuggire, lasciandosi dietro carneficine di innocenti, fino ad approdare nell’ospitale Venezia, “felice di potersi finalmente riposare”(evitato, grazie al fervorino, CIE, bastonate, schiavismo e deportazione). Una mascalzonata che Santoro – ditene pure peste e corna – avrebbe magari riequilibrato con qualche immagine della mattanza che la Nato, impropriamente sul posto, da 11 anni esegue su villaggi e civili inermi.


Stessa caratura etico-politica degli azzeccagarbugli del Forum Palestina che, per voce di Germano Monti e appiattendosi sulla non innocente e certo ottusa posizione di alcune organizzazioni palestinesi, dal trono di latta, tecnicamente di merda, del suo perbenismo euro-razzista, lancia fatwe contro tutti coloro che ai fagocitanti dell’Impero stanno sui coglioni: ieri Gheddafi, oggi Assad e Ahmadinejad. Gran rivoluzionari di velluto, cari alla National Endowment for Democracy. E qui rendo merito a Contropiano, della Rete dei Comunisti, che ha saputo sulla Siria mettere i puntini sugli i. 


Altro, in tutti i senso ingombrante, personaggio della risma delle vivandiere è Luisa Morgantini. Circolano in questi giorni in parallelo due appelli dalle firme illustri. Il “manifesto” titola uno “No alla repressione in Egitto e Siria” e l’altro “No alla guerra contro Iran e Siria” (noguerrasiriairan@libero.it) . Quest’ultimo, qui riportato in calce, è ineccepibile e, con Losurdo, Vattimo, Hack, Chiesa e altri, chiama alla lotta contro i cani da guerra e le jene da embargo, né smantella le menzogne e gli arbitrii. Me ne prendo un po’ di merito anch’io perché, ricevutolo dalla Germania, fatte alcune rettifiche, l’ho tradotto e diffuso in rete. L’altro esige solo una definizione: schifezza. Si tratta dei soliti reggicoda dei “diritti umani” e della “democrazia” da esportazione. Però in sacchetti alla lavanda, non con le bombe, per carità. Li sappiamo a memoria: Morgantini, Mecozzi, Agnoletto, Monti, Vauro, Bersani (Attac), Cannavò (Sinistra Critica), Tonio Dall’Olio…. Tutta gente che bazzica per le aree di interesse imperiale e resistenza popolare cercando di disarmare gli aggrediti con la perorazione di far congiungere i buoni dell’una e dell’altra parte.


Anestizzata la propria coscienza al profumo di lavanda con qualche critica a Occidente, Israele e satrapi arabi, questi cerchiobottisti, con la loro virulenza diffamatoria contro chi non gli assomiglia, fanno apparire i leghisti madamini di corte. Immancabile, in tanta vergogna collaborazionista, sia l’invocazione all’ONU, noto ente di pace a fianco di umili e indifesi, sia lo sdegno per l’insufficiente intervento della “comunità internazionale” (meglio “atlantica”) a sostegno del popolo siriano, di cui Morgantini e Agnoletto sanno esprimere i sentimenti molto meglio di quei milioni che per Assad manifestano da mesi a Damasco e ovunque. E’ della stessa categoria di infami il sorosiano Human Rights Watch, che, smerdate le sue balle libiche su fosse comuni e viagra da stupro, ora si esercita, insieme alla consorella Amnesty, sulla Siria, sulla quale invoca “misure decisive di Lega Araba e ONU”. Le misure decisive le avevano già chieste per la Libia, dimenticandosi poi peraltro di gettare un occhio e un elenco sulle decine di migliaia di innocenti libici sistemati da quelle misure.


Libia libera
Ma veniamo alle cose belle. E’ partita alla grande, a dispetto di tutti gli imbarazzatissimi occultamenti, la lotta di liberazione in Libia. Privati della copertura area dei pupari Nato, i “giovani rivoluzionari” di estrazione Nato-Al Qaida, cadono come birilli davanti agli attacchi della guerriglia lealista, quando non si fanno a pezzi tra loro e con il CNT, recentemente fuggito a gambe levate, il quislinghino Jalil in testa, dalla Bengasi in rivolta. In rivolta dei tagliateste integralisti, ansiosi di far finire tutti i non shariaci come Gheddafi, ma che fa. Anzi, tutto fa ottimo brodo per mandare a gambe all’aria questo sconcio di Libia di mentecatti e venduti. Questo “governo” senza arte né parte, senza forze di sicurezza e senza un pulviscolo di sovranità, perde pezzi un giorno sì e l’altro pure. Lungo la costa imperversano, trucidandosi per l’osso, bande e pezzi di tribù. Tagliagole idonei alle atrocità, ma inetti al combattimento contro chi non si batte per dollari, impegnati a sgozzarsi fra loro, insieme alla fine delle incursioni Nato offrono l’occasione per un equilibrio di forze favorevole alla resistenza. In meno di una giornata, Bani Walid,150mila abitanti, cuore della tribù Warfalla, con oltre un milione la più grande del paese, indomitamente gheddafiana, che già era costata ai ratti due mesi di assedio, è stata liberata. E’ bastato che qualche ratto si avvicinasse e pretendesse di arrestare un dirigente lealista, che la città e tutta la provincia siano esplose. Al confine sud l’alleanza Tuareg-truppe gheddafiane presidia i confini e impedisce il dominio dei ratti sul Fezzan. 


Se leggeste i bollettini della Resistenza (Free Libyan Press), avreste un quadro di ininterrotta attività delle forze lealiste da un capo all’altro del paese. Tanto che spesso i media, rintuzzati nelle loro mistificazioni, rimediano facendo passare per scontri interni agli islamisti le operazioni anti-regime dei patrioti. Così Bengasi è letteralmente esplosa all’arrivo del CNT e di Jalil, costringendo la combriccola a darsela a gambe e il vicepresidente a rassegnare, atterrito, le dimissioni. Tutta Tripoli, Zawhia, Sliten, Ras Lanuf, Sebha, rimbombano di spari e granate e, per quanto possano esserci scontri tra le mafie terroriste spedite dal Golfo, il dato che ovunque vengano attaccate le prigioni e liberati soldati e militanti gheddafiani offre un segnale preciso. A salvare il salvabile da una guerriglia, che saprà estendersi anche ai trent’anni di lotta antitaliana (ma ci vorrà di meno in uno scenario che vede uniti agli arabi laici, sovrani e non globalizzati Russia, Cina, Latinoamerica, Occupy e, domani, Forconi in tutto l’Occidente), e che, come in Afghanistan, non permetterà mai il controllo del territorio, sbarcano su pozzi e terminali 12mila marines. Sicari mandati dall’Anonima Sequestri a garantire quanto meno il furto del petrolio. Reso viepiù difficile dai costanti sabotaggi delle condutture e assalti agli impianti da parte dell’Esercito Nazionale di Liberazione.


E’ questo il contesto in cui a Tripoli è sbarcato Monti, questa cornacchietta sulle spalle dell'Idra a tre teste FMI, BCE, agenzie di rating. E' arrivato con due gorilla, l’addestratore di ratti degli Interni e quello di mercenari della Difesa, quel Di Paola che, scavalcando le montagne di sue vittime, si presenta a pietire qualche contributo di stellette nostrane al soffocamento nel sangue dei libici, del quale è stato tra gli iniziatori. L’uomo Goldman Sachs, Bilderberg, Trilateral, non pago del colpo di Stato in patria, fatto in combutta con Napolitano, “il comunista preferito di Kissinger” (e pour cause!), per depredare quel che resta di democrazia, diritto, sopravvivenza, vorrebbe a Tripoli cavare qualche castagna secca dal fuoco con il quale la sua associazione a delinquere Usurai SpA, ha incenerito la Libia. Il partner è tutto da ridere: quel traballante CTN cui nessuno in Libia dà retta e che non possiede neanche l’oncia di legittimità e affidabilità attribuibile ai “barbari sognanti” di ciularsi il Nord Italia. Grandi accordi per Eni, Impregilo, Fiat, Snam, Caltagirone, che gli potranno permettere, finchè il popolo libico non farà pulizia, di ravanare tra le eccedenze di francesi, britannici, statunitensi, qatarioti. Ma, non temete, con quelle pive nel sacco, la banda di scassinatori con licenza parlamentare di uccidere, avrà modo di rifarsi su di noi.


Siria libera
Dunque, il capo della missione di osservatori della Lega Araba, tradendo il mandato assegnatogli dai pascià del Golfo con l’avvoltoio Nato-Israele sulle spalle, ha dichiarato che i media avevano sparato cazzate, che la violenza era anche dei rivoltosi, che la situazione in tutto il paese era normale e che l’opposizione interna ed esterna la smettesse di demonizzare la missione cianciando di violenze e stragi. E che tutto questo era stato stabilito - afferma - grazie all’assistenza e all’assoluta libertà di ricerca, contatto, movimento, assicurate alla delegazione dal governo di Damasco. Infuriati, i mandanti, costretti a rinunciare, per ora, a un rapporto anatema contro Assad, prima hanno tirato fuori un unico osservatore gaglioffo e gli hanno fatto spappagallare le calunnie da mesi rovesciate sulla Siria. Poi hanno ceduto all’umiliazione di allungare di un mese l’operazione.


Viene a mente quella periferia di Damasco che ho ripetutamente percorso, della quale nello stesso momento le emittenti imperiali e reazionarie raccontavano che era insorta e veniva cannoneggiata. Avessi visto una sola parete di casa colpita da un obice!. E vengono a mente quegli osservatori che si aggiravano per ogni dove, perplessi a non trovare una qualche prova dello sterminio assadiano del proprio popolo. Alla luce della foia bellica della gazzetta del sion-yankee De Benedetti, va riservata attenzione al lungo reportage di Alberto Statera che se ne va a spasso a Deraa, descritta come origine e fulcro dell’insurrezione e della repressione selvaggia, con i soliti 7, 8 assassinati dal regime ogni giorno, senza incontrare alcunché che non indichi una vita normale e un’assenza totale di violenze. Sembra che ai “giovani rivoluzionari” con armi israeliane e istruttori Nato non sia rimasta che la classica risorsa degli attentati al tritolo contro la popolazione refrattaria alla “rivoluzione”. Esempio, oltre quello da me vissuto a Damasco il 6 gennaio, massacro di 26 civili e poliziotti: il 21 gennaio scorso, sulla strada Idili-Ariha, questi “rivoluzionari” hanno attaccato un bus della polizia che trasportava prigionieri, cioè loro sodali, e hanno massacrato 14 persone. Battuti nello scontro, ora rimediano con le road side bomb, dal bersaglio indiscriminato. Se non si prevale, che almeno si coltivi il caos. Occidente e satrapi si accontenteranno.


Man mano che si avvicinano le riforme decise dal governo per marzo e giugno, nuova costituzione, referendum, elezioni pluripartitiche sotto osservatori internazionali, che sottraggono ai “ribelli” il tappeto “democratico” stesogli sotto ai piedi da Turchia, tiranni monarchici e Nato, i cospiratori diventano più nervosi e si agitano. Costernato dal sondaggio di una società del suo stesso regno che riconosceva ad Assad il sostegno della maggioranza del paese (il 55%, hanno dichiarato a denti stretti, ma fuori dal Qatar si può calcolare poco di meno del 100%, lo sanno bene gli osservatori) il monarcodittatore Al Thani ha chiesto soccorso. Sfidando ogni remora di fratellanza araba e mostrando al mondo l’unità d’intenti tra cricche criminali, ha compiuto una“visita segreta” in Israele.Tanto segreta, che si è fatta riprendere in lungo e in largo, fin nell’affettuoso tète a téte con la gorgone assassina di Gaza, Tzipi Livni.


Come dire, se quei quattro mercenari di Al Qaida infiltrati e i locali Fratelli Musulmani non ce la facessero, e figuriamoci l’esercito arabo che nel Qatar stanno allestendo e che è destinato a frantumarsi tra defezioni e compattezza patriottica siriana, sappiate che abbiamo dalla nostra parte anche il castigamatti nazisionista. Come sempre coperto dalla Shoa e disposto a tutto.


Livni e Al Thani, emiro del Qatar
Intanto, roso dalla frustrazione per il fallimento dell’”Operazione Osservatori”, il Consiglio Ministeriale della Lega Araba, attentissimo all’opinione del popolo siriano, ha intimato a Bashar El Assad di rimettere il potere nelle mani del suo vice, di mettere in piedi un governo di “unità nazionale” (ne sappiamo qualcosa: da sempre il governo dell’unità dei vampiri) e di procedere spedito a elezioni (già programmate per la tarda primavera). L’Arabia Saudita, di cui le sollevazioni contro l’obbrobriosa dittatura barbaro-feudale sono le più taciute del mondo, ha contribuito richiamando i propri osservatori (meglio: spie e provocatori) dalla missione della Lega, mentre il Qatar, sempre in testa alla banda di macellai, sta raccattando teste di cuoio occidentali e tagliagole islamiste per farne “l’esercito dei disertori siriani”. Che se la stanno già facendo sotto alla vista di quelle milionate lealiste in piazza in Siria, nonché di un esercito nazionale attrezzato e convinto, collaudato in mezzo secolo di resistenza al più feroce degli aggressori.


Allargando lo sguardo, è resa evidente la difficoltà in cui si ritrovano i cospiratori, dopo 10 mesi di assalto, dai tentacoli di pace che Obama, insufflato dalla cupola militar-finanziaria, ha allungato verso l’Iran. Disdette massicce esercitazioni Usa-Israele che mimavano un attacco alla grande contro il paese canaglia, ha indirizzato a Tehran una lettera (segreta, ma scintillante in rete e confermata dal ministero degli esteri persiano) in cui si chiedeva di riprendere i negoziati al fine di evitare una conflagrazione bellica. Il rifiuto di Russia e Cina, l’ostilità della vera comunità internazionale (il 99%) e, di più, la realizzabilissima minaccia iraniana di chiudere gli Stretti di Hormuz e mandare a carte e quarantotto il sistema economico capitalista e, per finire, l’imminenza di elezioni presidenziali, nelle quali l’elettorato di Obama minaccia di deviare verso quel 99% anti-Wall Street e anti-guerra, sembrano aver provocato il ripiegamento. Ripiegamento, badate e non fatevi cullare da illusioni, o Morgantini, dalla guerra immediata all’Iran, servita da sempre a mascherare altre guerre d’aggressione, ma non dal disfacimento della Siria. Anzi, è lampante che si tenti di ammansire l’Iran e la crescente opposizione mondiale a questa guerra mondiale contro la democrazia, la libertà, la sovranità e per dittature da scegliere tra quella di Monti-Draghi e quella di Hamid al Khalifa El Thani, emiro del Qatar. Ma è ancora più lampante che si accantona l’Iran, per attaccarlo poi e meglio una volta perso l'alleato arabo, al fine di farci accettare il male bellico minore: la liquidazione della libera Siria. Probabilmente questi specialisti del ricatto e e delle fregature hanno anche pensato di convincere Tehran, in cambio della tregua concessagli, di abbandonare Damasco e Assad al loro destino. E gli iraniani, simultaneamente strangolati dall’embargo alle loro esportazioni di petrolio testè annunciato (aspettatene gli effetti sui nostri prezzi), dovrebbero caderci? E’ la solita idea dei civilizzati che i selvaggi siano più stupidi.


Non posso esimermi dal segnalarvi come queste tutto sommato buone giornate continuino ad essere inquinate dai soliti intossicatori della sinistra nella fureria imperiale. Burgio e Grassi, di RC, sono coloro che hanno infinocchiato buona parte della migliore base del partito fingendo di contrastare la deriva collaborazionista di Bertinotti e Vendola. Poi, inconsistenti come i pupazzi di gomma che stiracchia Ernesto bassotto, si sono frantumati in quattro sotto-cosche, una delle quali fuggita nella microcorte di Diliberto. Dove il ridicolo diventa il grottesco. Però imperversano sulla stampa di “sinistra”. E nel momento in cui l’Anonima Usurai e Killer lancia la sua ultima crociata contro i migliori pezzi di umanità e lacrime e sangue ci colano addosso da tutte le parti, Burgio, pensatore principe della conventicola, imbratta un paginone del “manifesto” per scolpire nell’immaginario di tutti noi un DNA inesorabilmente nazista della Germania. 


Potrebbe, l’acuto geopolitico, buttare uno sguardo a Sud, dove nazisti veri, strutturali, in parte correligionari del Burgio, stanno infierendo come mai prima su popoli e terre, con atrocità da Guinness dei Primati. Ma no, meglio distrarre, meglio voltare all’indietro lo sguardo, intriso di razzismo e spocchia, verso la Germania. Lasciamo che Himmler ci serva ancora un po’. Germania, che ha sacrificato un milione di donne e uomini nella lotta al nazismo, che per secoli è stata il popolo più pacifico del continente, la fucina forse più ricca di intelletti del pensiero e della creatività. Germania di Beethoven, Rilke, Goethe, Marx, Liebknecht, Hegel... Per un Burgio trasudante razzismo e superstizioni bibliche su popoli eletti e non, antiscientifico e viscerale quanto il celtico Borghezio, lo spirito dei tedeschi è quello: violenza, nazismo, un unicum, in altre parole: “il male assoluto”. Ricorrendo alla scaltra e accecante tecnica del lancio di ossa da olocausto, il Grande Depistatore ci vorrebbe rifilare “un’anima tedesca” dedita a ogni obbrobrio, “male mostruoso, gratuito, costruzione sociale del male, presente anche nei comportamenti spontanei di gran parte della popolazione civile, ancor prima dell’inizio della guerra”. Sul collo delle vittime dei campi ci sarebbero dunque gli artigli di praticamente tutti i tedeschi. Dell' "anima tedesca". A dispetto degli antifascisti tedeschi, comunisti, socialisti, democratici, religiosi, che lì dentro ci hanno rimesso la ghirba.La mascalzonata si conclude con questa sciagurata, antiscientifica, anticomunista autoassoluzione: “Non si può negare che il discorso sui caratteri nazionali abbia una sua consistenza e una sua notevole utilità". Gli è sfuggito di menzionare Lombroso. Si dicono marxisti leninisti, questi signori, ma biblicamente credono nel peccato originale. Non degli italiani fascisti, mica degli americani genocidi, mica degli inglesi stermina-popoli. Mica il loro. Solo dei tedeschi. Allibito da tanto male, chi si preoccupa più della Palestina? O della Siria?


La qualità etica, la sostanza politica di questi omini di burro annaspanti nella propria inutilità, si rivela anche, sullo stesso giornale, con un’accorato appello a Vendola, perché gli dia una mano a salvarli dal destino di lustrascarpe e li faccia rientrare nella casta. Quel Vendola vituperato al tempo della sua defezione a destra, quel Vendola ricettacolo di ogni ambiguità ideologica e collateralismo con poteri politici e farabutti economici, quel Vendola che esalta i verdi giardini di Israele (bella cartina di tornasole), e non trova una parola contro le guerre, quel Vendola che gli ha fatto mille volte marameo e dovete morire!


Siamo in piena guerra mondiale di pochissimi psicopatici in grisaglia di Armani o jallabiah dei bacherozzi del Golfo, contro tutti i sani. Monti di qua, Al Thani di là, Obama su tutti, appeso ai fili manovrati dall’empireo del male, di quello vero, di oggi. E, tolto di mezzo Obama, guardate che successori, accreditati dal giubilo occidentale: Gingrich, Santorum, Romney, tutti che “i palestinesi non esistono”, “bombardiamo Tehran”, “basta aborti, ma vai con il boia”, “fuori gli untermenschen neri o latinos”. Un’assortimento da manicomio criminale, da Luna Park con tunnel della morte.


La Libia, la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan, l’Iran, i latinoamericani, gli asiatici, Hezbollah, i palestinesi non rassegnati, qualunque sia il loro ordinamento, ovviamente al di là della schiuma di bugie che ce ne offusca la vista, sono, insieme a forconi e accampamenti, le scialuppe che ci sottraggono al naufragio. O vogliamo affidarci a uno Schettino, a un Costa Crociere?
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Scritto da Bernd Duschner, Associazione di Amicizia con la Serbia, Pfaffenhofen, Germania.
Tradotto e diffuso da Fulvio Grimaldi


Un appello contro i preparativi della guerra all’Iran e alla Siria
Sempre più concrete e minacciose si fanno le probabilità che la macchina di morte che ha infierito sulla Jugoslavia, sull’Afghanistan e sull’Iraq, e che ha appena finito di devastare la Libia, si scagli contro altri paesi sovrani. Paesi riottosi ad allinearsi ai persistenti progetti di Nuovo Ordine Mondiale, ma la cui sottomissione è decisiva per rilanciare il dominio geopolitico degli Usa e della Nato in Asia e nel mondo intero. La profonda crisi economica ma anche di consenso sociale che sta attraversando l’Occidente - e la necessità di impedire ad ogni costo un riaggiustamento degli equilibri planetari a favore di nuove forze emergenti - rende ancora più imminente questo pericolo.
La guerra psicologica, multimediale e ideologica è in effetti già cominciata e ha già messo in campo le armi della disinformazione e della criminalizzazione dell’avversario ma ha anche già proiettato sul terreno i primi corpi d’elite. Questo appello, che invitiamo a sottoscrivere, è stato originariamente lanciato ai primi di gennaio in Germania, paese nel quale ha raccolto l’adesione di 5 parlamentari nazionali. Il testo è stato pubblicato e diffuso in molte lingue.
Sul blog Freundschaft mit Valjevo e.V. la versione originale e le diverse traduzioni [DL].


Fermare i preparativi di guerra! Mettere fine all’embargo!
Solidarietà con il popolo iraniano e siriano!


Decine di migliaia di morti, una popolazione traumatizzata, un’infrastruttura largamente distrutta e uno Stato disintegrato: questo il risultato della guerra condotta dagli Usa e dalla Nato per poter saccheggiare la ricchezza della Libia e ricolonizzare questo paese.
Ora preparano apertamente la guerra contro l’Iran e la Siria, due paesi strategicamente importanti e ricchi di materie prime che perseguono una politica indipendente, senza sottomettersi al loro diktat. Un attacco della Nato contro la Siria o l’Iran potrebbe provocare un diretto confronto con la Russia e la Cina – con conseguenze inimmaginabili.
Con continue minacce di guerra, con lo schieramento di forze militari ai confini dell’Iran e della Siria, nonché con azioni terroristiche e di sabotaggio da parte di “unità speciali” infiltrate, gli Usa e altri Stati della Nato impongono uno stato d’eccezione ai due paesi al fine di fiaccarli.
Gli USA e l’UE cercano in modo cinico e disumano di paralizzare puntualmente con l’embargo il commercio estero e le transazioni finanziarie di questi paesi. In modo deliberato vogliono precipitare l’economia dell’Iran e della Siria in una grave crisi, aumentare il numero dei disoccupati e peggiorare drasticamente la situazione degli approvvigionamenti della loro popolazione.
Al fine di procurarsi un pretesto per l’intervento militare da tempo pianificato cercano di acutizzare i conflitti etnici e sociali interni e di provocare una guerra civile. A questa politica dell’embargo e delle minacce di guerra contro l’Iran e la Siria collaborano in misura notevole l’Unione europea e il governo italiano


Facciamo appello a tutti i cittadini, alle chiese, ai partiti, ai sindacati, al movimento pacifista perché si oppongano energicamente a questa politica di guerra.


Chiediamo al governo italiano:


- di revocare senza condizioni e immediatamente le misure di embargo contro l’Iran e la Siria
- di chiarire che non parteciperà in nessun modo a una guerra contro questi Stati e che non consentirà l’uso di siti italiani per un’aggressione da parte degli Usa e della Nato
- di impegnarsi a livello internazionale per porre fine alla politica dei ricatti e delle minacce di guerra contro l’Iran e la Siria.


Il popolo iraniano e siriano hanno il diritto a decidere da soli e in modo sovrano l’organizzazione del loro ordinamento politico e sociale. Il mantenimento della pace richiede che venga rispettato rigorosamente il principio della non-ingerenza negli affari interni di altri Stati.


Domenico Losurdo
Gianni Vattimo
Margherita Hack
Franco Cardini
Giulietto Chiesa
Oliviero Diliberto
Manlio Dinucci
Vladimiro Giacché
Federico Martino
Sergio Ricaldone
Costanzo Preve (filosofo), Massimiliano Ay (Segretario del Partito Comunista della Svizzera italiana), Fosco Giannini (segreteria nazionale PdCI), Guido Oldrini (direttore Marxismo Oggi), Antonino Salerno (Segretario generale SIAM Sindacato Musicisti CGIL), Andrea Fioretti (Comunisti Uniti Roma), Stefano G. Azzarà (Università di Urbino), Fabio Frosini (Università di Urbino), Renato Caputo (Comunisti Uniti Roma), Cristina Carpinelli, Maurizio Musolino (giornalista), Andrea Catone (direttore Marx XXI), Fausto Sorini (responsabile esteri PdCI), Luigi Alberto Sanchi (Cnrs, Parigi), Mauro Gemma (direttore Marx XXI on line), Paola Pellegrini (resp. cultura PdCI), Campo Antimperialista, Umberto Spallotta, Roberta Vespignani, Rosalba Calabretta (Ass. Solidarité Nord-Sud ONLUS), Franco Tomassoni, Mario Ferdinandi, Dmitrij Palagi (Coordinatore regionale Giovani Comunisti della Toscana), Daniele Barillari, Giacomo Cucignatto (Firenze), Luciano Albanese (Università di Roma-La Sapienza), Simone Do, Bassam Saleh, Alexander Hobel (storico), Giuseppe Sini (studente, Sassari), Bruno Settis, Emiliano Alessandroni (dottorando Università di Urbino), Gabriele Repaci (studente di Filosofia Università di Milano), Simone Santini (giornalista), Eleonora Angelini, Antonio Capitanio, Sergio Nessi (coordinatore regionale della Lombardia Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba), Maurizio Neri (Editore Rivista Comunismo e Comunità Roma), Redazione di Comunismo e Comunità, Riccardo Di Vito, Diego Angelo Bertozzi (collaboratore Marx21), Paolo Torretta (giornalista freelance, Helsinki, Finlandia), Sarah Latorre (Segreteria Provinciale PdCI Taranto - Coordinamento Nazionale FGCI), Andrea Sonaglioni, Giancarlo Paciello, Giorgio Raccichini (PdCI Federazione prov. di Fermo), Claudio Orlandi, Filomena Crispino, Mattia Nesti (coordinatore provinciale Giovani Comunisti Pistoia), Maurizio Bosco (Roma), Lino Sturiale (PdCI Torino), Alessandro Perrone (Comunisti Uniti Monfalcone GO), Virginio Pilò (dipendente Università di Bologna), Giuseppe Zambon (Zambon Verlag, Frankfurt), Odradek edizioni (Roma), Roberta Anconetti, Giuliano Cappellini, Bob Fabiani (Scrittore-Blogger, Roma), Sebastiano Taccola, Paolo Borgognone (storico), Francesco Maiellaro (avvocato Bari), Chiara Catia Carlucci, Giacomo Cappugi (Firenze), Gianmaria Pavan, Ettore Chiorra, Andrea Salutari (coordinatore Giovani Comunisti Torino), Federico Vladimiro Quondamatteo (FGCI-PDCI federazione di Fermo), Sezione "Abdon Mori" di Empoli del PdCI, Susanna Angeleri, Daniel Palladio, Paolo Trinajstic, Giovanni Baccini (Genova), Massimo Marcori (CPF PDCI Torino), Francesco Dragonetti (Esecutivo Regionale FGCI Emilia-Romagna), Antonino Contiliano, Erman Dovis (operaio), Yuri Dovis (operaio), Claudia Berton (Verona), Rodolfo Santamaria, Rosa Taschin (Ravenna), Yasmina Khamal (insegnante, Bruxelles), Higinio Polo (Profesor y escritor, Barcelona España), Marica Guazzora ...


Per sottoscrivere l'appello: noguerrasiriairan@libero.it


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CON IL CUORE E CON LA MENTE
Pieno appoggio alla sollevazione del popolo siciliano!


Da alcuni giorni la Sicilia è in subbuglio, paralizzata da un movimento di protesta senza precedenti. Iniziato da alcune categorie di lavoratori autonomi (camionisti, agricoltori, pescatori, artigiani) esso ha poi coinvolto disoccupati, precari, studenti, casalinghe.
Contro questa protesta la stampa di regime ha scelto inizialmente un omertoso silenzio, con lo scopo evidente di coprire la spalle al governo di centro-sinistra-destra presieduto da Monti. C’è chi ha fatto di peggio. C’è chi ha diffamato la rivolta come una “emanazione della criminalità organizzata e della borghesia mafiosa”. Ci riferiamo a certa sinistra con il cuore di pietra e la testa nel pallone, oramai sorda alle istanze della maggioranza dei cittadini, siciliani anzitutto, interessata soltanto a riacciuffare seggi e poltrone.


Il Movimento dei Forconi, così come qualsiasi altro soggetto di lotta si giudica dalle sue rivendicazioni, dalle persone che mobilita, dal rapporto che instaura con le forze al potere, certo anche dai suoi esponenti. Non c’è dubbio che le rivendicazioni dei siciliani sono sacrosante. Il popolo lavoratore è alla fame e l’isola sta naufragando nel degrado e nella corruzione, anche a causa dei poteri politici siciliani e nazionali i quali, invece di ascoltare i cittadini, rispondono solo al comando del capitalismo predatorio globale. Il carattere di massa della protesta è indiscutibile, segno che malgrado i disagi provocati dalla rivolta i siciliani stanno dalla parte di chi sta lottando. La legittimità di un movimento popolare, per sua natura spontaneo, pluralista e non pilotato da questo o quel partito, non si può mettere in discussione a causa delle simpatie politiche, magari non condivisibili, di questo o quel dirigente. Chi compie questa operazione, ammesso che lo faccia in buona fede, fa il gioco di un governo che con le sue misure antipopolari getta tutto il paese nel baratro.


Sosteniamo la sollevazione popolare siciliana quindi, affinché pieghi l’avversario e raggiunga i suoi obbiettivi. La sosteniamo perché essa ci indica la strada da seguire, che solo con la lotta dura e di massa il popolo lavoratore può difendere i propri diritti ed evitare di precipitare nella miseria. Siamo quindi per la sua estensione al resto del paese, affinché tutti coloro la cui vita è lesa e distrutta dalla crisi e dalle misure adottate dal governo, escano dal torpore e alzino finalmente la testa.
Le classi dominanti hanno fallito. Il regime dei partiti ha fallito. L’Unione europea ha fallito.
Un futuro migliore è possibile solo imboccando un’altra strada, questa strada passa per la lotta sociale.


Solo con una rivoluzione democratica e popolare si potrà uscire dal marasma. Una rivoluzione che passo dopo passo saprà riconoscere chi sono i veri amici del popolo, coloro che hanno proposte alternative serie alla politica economica di chi fino ad ora ha guidato il paese distruggendolo.


Dalla Sicilia arriva un segnale di cambiamento, dobbiamo raccoglierlo, farlo crescere, farlo maturare.
La prossima settimana la rivolta si estenderà alla Sardegna con alla testa il Movimento dei Pastori.
Al popolo in rivolta non si devono mai voltare le spalle, tutte le energie si devono concentrare contro i vecchi rottami
della politica siciliana, sarda e italiana.


Movimento Popolare di Liberazione
sollevazione.blogspot.com
20 gennaio 2012

lunedì 16 gennaio 2012

La rosa purpurea di Damasco


Non credere a nulla solo perché ti è stato detto. Non credere a quanto il tuo maestro ti dice, solo per rispetto per il maestro. Ma qualunque cosa tu, dopo accurati esame e analisi, trovi essere gentile, vettore al bene, al giusto, al benessere di tutti gli esseri, fanne dottrina in cui credere e a cui attenersi. Fanne la tua guida. (Gautama Siddharta)

Rosa del deserto

Accettiamo la qualifica della rosa come fiore più bello, fiore per antonomasia, metafora del bene, dell’amore, della gentilezza, dell’umanità che rimane se stessa Per esempio, finchè negli Stati Uniti non sanno decidersi se essere statunitensi o esseri umani (ma parecchi, negli ultimi tempi, si sono avvalsi della scelta), in quel paese non cresceranno rose e quelle che vi appaiono sono finte, come è finto cibo l’hamburger McDonalds e finta bevanda la Coca Cola, e finto presidente e finto democratico Barack Obama. Parto con questa storia di rose, perché quando l’altro giorno me sono venuto via da Damasco, avevo dietro tutta una scia di profumi di rose, che ancora mi circonfonde, e nel cuore una specie di Graal. Ma non l’hollywoodiana menata criptomassonica per dementi esoterici che, trovando la mitica coppa, contano di acchiappare le redini del mondo. Il Graal, al contrario, come epitome del sangue versato per l’uomo, la giustizia, la verità, la felicità. Mica da un Cristo immaginario. Da chiunque, dagli iracheni, serbi, afghani, libici, tantissimi altri, in resistenza contro l’orrido mostro della regressione a un passato ferino e cannibale. Oggi dal popolo di Siria.

Fulvio Grimaldi

Ho fatto un viaggio nel fiore della migliore umanità, quella della quale noialtri al Nord ci stiamo scrostando di dosso gli ultimi petali. E quel fiore, appunto la rosa di Damasco, purpurea di sangue e passione, era diventato il mio personale Graal, in sostanza una luce che rischiara la corretta via nella notte, per come me lo ha tradotto in parole un uomo, un siriano, un grande arabo.

Si chiama Adam Mohammad, il responsabile di tutte le comunicazioni tv in Siria, con il quale, in un convivio sull’altura che ti permette di raccogliere negli occhi l’intera capitale, abbiamo unito la fantasmagoria di una cucina che non conosce manipolazioni chimiche, alla discussione su qualche punto cardinale della vita, da Gilgamesh a Ibsen, da Averroé a Tommaso d’Aquino, dai fenici che depositavano sulle spiagge sicule miele, olive e datteri e dettero così inizio agli scambi tra comunità unite dal lago mediterraneo, fino a Freud. Ha ripetuto, ha indirizzato a noi tutti, il voto che quasi ogni siriano incontrato mi ha espresso: impediamo che questo mare, intorno al quale sono sorte le migliori civiltà, diventi un oceano, come vorrebbe chi costruisce il suo dominio sulla frantumazione. E’ che, incredibilmente, da quelle parti, specularmente alla nostra razzista indifferenza, si guarda a noi con affetto, come a gente di una famiglia allargata e ne sono simbolo proletario sui ragazzetti le maglie di Milan o Roma, o della Nazionale, uniche tra quelle di paesi calcisticamente più blasonati, ma fuori dal Mediterraneo. Gridavano Paolo Rossi e Baggio, oggi ti offrono un rapporto, gioioso per quanto effimero, chiamando Totti o Ibrahimovic. La rosa che Adam, a esaltare tutte le rose raccolte nei percorsi umani su tutte le vie di Damasco del mondo, mi ha consegnato ha10 petali. A sua volta l’ha avuta in dono da suo padre. E’ una rosa che per noi, ingabbiati nel sospetto, nella diffidenza, nella paura, fin nell’odio per chi ti corre accanto, ha un sapore antico, di riscoperta archeologica: “Devi ritenere buono chiunque incontri. Fino alla prima esperienza negativa”. Elementare, direbbe Sherlock Holmes. Tanto semplice che noi, ingorgati nella civiltà dell’individualismo e della competizione, del vicendevole sbranamento, non riusciamo più a concepire, tanto meno a praticare. Da noi vale l’homo homini lupus. Nella cinica formula di chi se ne intendeva: “A pensare male si fa peccato, ma ci si prende”. Picciotto tra picciotti.

Sono in un paese, dove il detto del padre di Adam (un dio?) è principio di vita, si esprime in sorrisi a prescindere, in ospitalità che è gioia prima di tutto dell’ospitante, in delicati segni di amicizia. Eppure è un paese infestato da stranieri dalle cattive intenzioni, da visitatori col coltello dietro la schiena, da giornalisti ai quali il mandante planetario ha intimato il motto contrario: tutti cattivi, specie se di un altro ordine sociale, di un altro colore, di un’altra cultura, di un’altra religione, di un altro genere, di un’altra età, e neanche fino alla prima esperienza positiva. Che infatti non si vuole vedere mai, minerebbe la legge naturale della nostra superiorità, del nostro diritto di andar lì e uccidere chi rifiuta la logica del diverso da abbattere e consumare.

Per un ritardo e una coincidenza aerea bucata, sono giunto a Damasco da Amman via terra. Carico di tecnologie di ripresa e registrazione, al posto di frontiera siriano mi hanno guardato con severa attenzione. Loro, sì, hanno saputo dei giornalisti occidentali infilati in Libia, sia per capovolgere la realtà che vivevano, sia per passare ai fucilatori alle consolle del Nevada o di Sigonella le coordinate per sfoltire popolo in eccesso e polverizzare strutture da affidare a ricostruttori stranieri nel quadro della globalizzazione dei predatori. Qualche telefonata ha allentato la circospezione, ma decisiva è stata la scoperta, nel mio bagaglio, delle copertine di due miei docufilm: quello su Piombo Fuso contro Gaza e quello sul martirio della Libia. Più perspicaci di qualsiasi congegno elettronico usato per penetrare la tua intimità e agguinzagliarti alla paura, come quelli che abusano di noi agli aeroporti per farci convinti che il terrorismo lo fanno gli altri, i doganieri siriani mi hanno capito e accolto, subito, a suon di pacche sulle spalle, bibite, tè e pasticcini.

Vorrei rovesciare il sangue di Gilles Jacquier, reporter di France 2, i frantumi del suo corpo scaraventati dalla granata di mortaio sulle pareti del Centro Comunitario di Homs, in faccia ai cialtroni di Al Jazira e di tutte le emittenti embedded in Nato, quando inveiscono contro “l’autocratico e sanguinario Bashar El Assad che non consente alla stampa straniera di entrare in Siria e documentare quelle che si dicono le atrocità genocide del regime”. Gilles e altri colleghi esteri erano andati a Homs, appena poche ore dopo che c’ero stato io con un gruppo che comprendeva inviati britannici, tedeschi, austriaci, spagnoli, cubani, cinesi, turchi, giapponesi, cinesi, norvegesi, russi. La stessa sera, dagli schermi delle emittenti di cui sopra, facce di tolla deploravano con indignato sussiego che, appunto, in Siria non erano accetti giornalisti stranieri. Professionisti, magari con qualcuno onesto tra loro, che trasmettano da qui storie con anche solo briciole di verità, devono essere sepolti dall’uragano delle “testimonianze dirette” e dalle veline Cia dettate ai vari organismi umanitaristi di fuorusciti siriani incistati all’ombra di Westminster, o della Casa Bianca.

Già c’era stata la deplorevole esperienza degli osservatori della Lega Araba, arrivati pochi giorni dopo Natale e che, pur selezionati e spediti dalla cosca reazionaria del Golfo che controlla l’organismo, erano stati costretti dall’evidenza a demolire il castello di menzogne costruito dalle “testimonianze degli attivisti” e dal quale ci hanno bombardato conoscenza e coscienza. Li ho incrociati varie volte, perplessi, perché quanto vedevano e sentivano non corrispondesse all’agenda dettatagli dai satrapi del Golfo. Hanno battuto palmo per palmo la Siria, per settimane e settimane, sono penetrati in ogni angolo delle presunte città-martiri, Homs, Hama, Daraa, Idlib, e il peggio che gli è capitato era di essere circondati da gruppetti di facinorosi che denunciavano invisibili e in documentate atrocità di regime. Nonostante fossero l’emanazione tossica di una Lega che non rappresenta ormai che petrodollari, dittature monarchiche e interessi occidentali, non sono proprio riusciti a scovare segni della brutale repressione attribuita ad Assad, dei 5000 morti sanciti dall’ONU su imbeccata non di suoi ispettori, o di parti terze, ma esclusivamente dei mai verificati “attivisti”. E a proposito di questi 5000, cresciuti a dicembre in quattro giorni da 4000 e che ricordano le cifre a pene di segugio e a fini di consenso alle guerre diffuse su Srebrenica, sui curdi “sterminati da Saddam”, sulle fosse comuni di Gheddafi, non fosse per la dabbenaggine comatosa dell’opinione pubblica qualcuno avrebbe pur potuto pretendere, per un minimo di serietà, dati disaggregati: di questi 5000 manifestanti uccisi (di cui oltre 300 bambini: fa il massimo effetto), quanti civili, quanti miliziani armati, quanti dove, quanti da chi. Per il governo siriano le vittime complessive, di tutte le parti, erano dopo 11 mesi circa 3.500, di cui oltre 2000 delle forze dell’ordine, con tanto di identificazione e immagini. E, alla luce dei documentati oppositori armati (i ratti Al Qaida venuti dalla Libia, i miliziani infiltrati da Libano, Turchia, Giordania, definiti tutti “disertori” dell’esercito, le ingenti quantità di armi, anche israeliane, sequestrate ai confini), alla luce della presenza, in basi di addestramento in Turchia, Giordania e Libano, di forze speciali Nato e del Qatar, uno è portato dall’alluvione di probabilità a credere al governo. Anche l’ordine di Assad di non usare armi da fuoco contro manifestanti civili e lì da vedere presso ogni reparto della Sicurezza. Qualcuno avrà disobbedito, magari ne andava della vita, ma l’ordine questo era. Mentre qui abbondano le immagini di cecchini che da ripari sparano su cortei, poliziotti e soldati, mai mostrate in Occidente, nel Gran Guignol di cadaveri allestito dagli “attivisti” e diffuso dai media (che hanno meticolosamente occultato i corpi dei militari uccisi e il loro numero), non si è potuta trovare un’immagine dei terribili “miliziani” di Assad e dei suoi carri armati mentre sparano sulla folla. Eppure avrebbe dovuto essere facile.

A proposito di folle, quelle dell’opposizione le ho viste sugli schermi di internet e dei media e non c’era in mezzo neanche l’ombra di una donna, neppure di quelle incarcerate nel niqab nero caro ai “democratici rivoluzionari”. Invece a Homs, dappertutto e, quotidianamente, nella piazza delle Sette Fontane a Damasco, sono stato sommerso da moltitudini anche di donne che inneggiavano a Bashar e alla resistenza contro i cospiratori di Nato, tirannie integraliste del Golfo e la loro fanteria islamista. Anche al Cairo, anche a Tunisi, nella Libia di Gheddafi, perfino in Arabia Saudita, erano le donne a infoltire le prime file. Sarà questa, la partecipazione o meno di donne, la discriminante tra primavere vere e regime change agli ordini dell’imperialismo? Capiterà, come in Libia, che quelle adunate milionarie, che nessun partito sarebbe capace di “comandare” ininterrottamente per mesi, compaiano nei servizi di Al Jazira e codazzo mediatico occidentale travestite col fotoshop da manifestazioni “dell’opposizione”. In Libia a questi “informatori” scappò una bandiera indiana e qualche turbante sikh in quella che era stata fatta passare per la sollevazione di Bengasi. Pensate di cosa è capace l’emittente dell’emiro del Qatar: incollerita per come gli osservatori della Lega Araba, nonostante i rinforzi mandati dalle petrodittature, insistano a trovare accettabile la situazione e arrivino addirittura a esigere la fine delle violenze – inaudito! - a entrambe le parti, sbraita la notizia che, dopo otto giorni dall’arrivo degli osservatori, nonostante questi non abbiano visto alcunché del genere, ben 400 persone erano state ammazzate dalle “milizie” di Assad. E come illustra tale bufala? Con le immagini dell’attentato a Damasco del 23 dicembre, quello contro i servizi di Sicurezza, destinate a far credere che si tratta di vittime del regime.

Quello degli osservatori, spediti per inchiodare la Siria a responsabilità tali da giustificare un’aggressione, è stato il più formidabile autogol dall’inizio della cospirazione. Inevitabilmente, dati i mandanti, il rapporto finale farà le acrobazie necessarie a criminalizzare Assad e il popolo che lo sostiene. Ma sarà difficile eliminare lo stupore, o almeno i dubbi, con cui le dichiarazioni sul campo degli osservatori hanno lacerato la blindatura di bugie sotto la quale colonialisti e monarchi tentano di celare la realtà della Siria.

Sono riuscito a riprendere un fatto, emblematico al confronto delle chiassate anti-regime androcratiche e deserte di donne. Siriane di ogni età, religione, etnia, ogni giorno si radunano in piazza e si esibiscono nel taglio collettivo dei capelli. Significato? Antonia, cristiana, sottobraccio ad Amina, musulmana, me l’hanno spiegato, esibendo ciuffi di chioma raccolti in fazzoletti con i colori della bandiera: “E’ il segno che siamo uguali agli uomini e, come loro, combattenti per il nostro paese; che nessuno s’illuda che, nascoste sotto il niqab, ci rassegneremo a tornare a guardare al mondo per una fessura di due centimetri e a valere nel matrimonio e nei diritti un terzo degli uomini”.

Ho intervistato tanta gente, di strada, in famiglia, nelle riunioni dei congiunti, negli uffici, anche il vescovo cristiano orientale di Damasco, Toni Dora, capo di un movimento pacifico di opposizione. Una valutazione era comune a tutti, sostenitori del governo e oppositori onesti: Bashar el Assad non viene discusso. Nessuno che non lo consideri onesto, corretto, di buona volontà e assolutamente credibile nelle sue proposte di riforma, di modifica della Costituzione, di elezioni affidabili, di multipartitismo, di riassetto dello Stato in senso trasparente e partecipativo, di riconciliazione nazionale contro ogni cedimento a mire colonialiste e di vassallaggio. Proposte lanciate e rilanciate, in corso di elaborazione, con elezioni fissate per i primi mesi del 2012.

Nessuno che non sia consapevole delle mire di divisione e depredazione occidentali con l’utilizzo dei Fratelli Musulmani e dei salafiti di Al Qaida. E che non veda nel fondamentalismo ultrà, ma detto “moderato” da noi, già vincente in Egitto, Tunisia, Marocco e in travolgente avanzata in Libia, la fine di una Siria libera, laica, progressista, sovrana. Le critiche vanno piuttosto in direzione di settori dell’establishment a cui si attribuiscono un’ossificazione e una distanza che, come ovunque e peggio da noi, inesorabilmente si accompagnano a corruzione capillare e di alto bordo. C’è chi lamenta una presenza ossessiva dei servizi di sicurezza, vagheggia un Occidente democratico che non sa defunto, seppure mai esistito, del tutto televisivo e cinematografico, e però dimentica che da oltre 45 anni la Siria è sotto schiaffo israelo-occidentale, assediata, spesso colpita nei suoi uomini e nei suoi apparati, rapinata di territorio, infestata da provocatori e spie come fossero cavallette d’Egitto. Lasciare in queste condizioni finestre e porte aperte fa rischiare l’ingresso di correnti letali. Lasciamola in pace, la Siria, tagliamo le unghie alla rapacità genocida di Usa, Ue e Israele e vediamo che paese ne viene fuori.

Nella chiesetta cattolica di Bab Tuma, il giovane parrocco, con i banchi pieni di cristiani iracheni, fuggiti dal terrore del fanatismo scita (la Siria generosamente ne ospita e alimenta un milione e mezzo e, sicuramente, anche questa è una colpa agli occhi di wahabiti, salafiti e fratelli cristiani occidentali ), mi chiede timoroso di non registrarne le parole. Parole di pena e paura che gli suggerisce la prospettiva che per i cristiani di Siria vada a finire come per quelli dell’Iraq. Una comunità ridotta di due terzi dopo la scomparsa di Saddam. Un’apprensione che albergherà anche nelle frotte di giovani donne in abiti e atteggiamenti liberi e laici che scintillano nel traffico umano delle città siriane.

Da sotto la giacca del vescovo Dora, tre lauree, traluce una pistola. E’ l’effetto delle tante minacce di morte ricevute e del rischio per i propri figli, nell’andare a scuola, di finire in uno degli innumerevoli sequestri di persone non allineate alla sedizione golpista e alqaidista. “Il cuore della mia teologia è il secolarismo”, dice il prelato. “I regimi religiosi alla fine cadranno perché non sanno offrire soluzioni ai problemi sociali, alle ingiustizie, al bisogno di libertà. La carità che praticano non è una soluzione di giustizia e dignità. Per il nostro paese l’unica soluzione è il dialogo tra benintenzionati. Quello che viene rifiutato solo da chi intende mettere a ferro e fuoco il paese. Succederà quando ogni parte si convincerà che non raggiungerà una vittoria totale, quella che eliminerebbe l’altro del tutto. Per avviare questo dialogo è necessario tagliar fuori gli elementi che non si battono per la Siria e per il suo popolo, ma obbediscono a un ordine del giorno straniero.Tutti quelli che vanno in corteo appresso a Bernard Henry Levi, uno che si dice filosofo e che non è altro che un piromane arrampicato su montagne di corpi inceneriti, al servizio degli incendiari del mondo”. Così parlò il vescovo di Damasco, presidente del Movimento di Opposizione Indipendente Patriottico (IPOM), ma c’è da dubitare che Usraele e la cupola bellico-finanziaria occidentale si convincano a far dialogare e a rinunciare alla vittoria. Per quella, del resto, basta ridurre la Siria in Stato fallito, frazionato, dilaniato da conflitti tribali, confessionali, politici, come tutti i paesi brutalizzati e desertificati dalla Superiore Civiltà, Iraq, Afghanistan, Jugoslavia, Somalia, Libia, Haiti… Basta che non esistano sovranità, protagonismo nazionale e, nello specifico, sostenitori di Iran, palestinesi, Hezbollah, Hamas, amici della Russia, della Cina, dell’America Latina.
Ahmadinejad e Fidel

E se non ce la fanno le fanterie islamiste, sono pronti sia la No Fly Zone da bombardamento, sia il Corridoio Umanitario ove innestare un “governo provvisorio”, invocati entrambi, con sempre maggiore forza, dal sedicente Consiglio Nazionale Siriano, coccolato da Erdogan a Istambul, o dai Coordinamenti dei Comitati Locali, o dalla “Free Syrian Army” messa su da Qatar, sauditi e turchi con la supervisione di tagliagola francesi e britannici, o, ancora, da quella vetrina del MI6 che è, a Londra, l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani.


Il reporter Jacquier era all’incontro con le famiglie di Akrama e Al Nuzha, quartieri di Homs, città laureata da “attivisti” e media capitale dell’insurrezione. Gli sono arrivati addosso due granate di mortaio e un proiettile di RPG. Con lui sono morte altre 7 persone, più di 50 i feriti. L’ennesima.strage dei “rivoluzionari”. Aveva sicuramente lo stesso scopo di quella cannonata stragista del tank Usa contro l’Hotel Palestine, quartier generale di noi giornalisti cui Bush aveva ordinato di non restare a Baghdad. Nessuno che non sia embedded nelle “forze del bene” deve poter scrivere, riprendere, trasmettere. Noi giornalisti stranieri in quel luogo c’eravamo stati il giorno avanti, i primi di questo nuovo ciclo di visite, e forse, visto che il nostro percorso è stato identico, siamo serviti ai terroristi a prendere le misure per il massacro.

Abbiamo percorso la città di 900mila abitanti in lungo e in largo. Come già al mio arrivo via terra dalla Giordania, lungo la serie di città che, a partire da Daraa, erano definiti focolai di una rivolta irriducibile, con una sequenza di morti da 30-40 al giorno, anche qui la vita scorreva normale, qualche negozio chiuso (qui i “rivoltosi” chiedono il pizzo, sennò…), molti aperti, moltissime bancarelle, piazze e vie centrali immerse nel via vai della spesa, dei capannelli, dello struscio, del lavoro. Neanche l’ombra di un tank, di un blindato, di soldati, nemmeno lungo strade d’accesso dall’ampia visibilità desertica. Ci siamo mescolati alla gente, senza guardie, senza alcuna misura di sicurezza, e non abbiamo ricavato che rifiuti al terrorismo degli islamisti e desiderio di pace. Non che a Homs e in posti analoghi non ci siano oppositori e non vi si rintanino gli elementi armati al soldo della destabilizzazione. Un nucleo tradizionale e consolidato di Fratelli Musulmani gli ha fatto da brodo di coltura. Ne ha saputo qualcosa il giovane film-maker francese. Ma anche noi, poche ore prima, seppure senza esiti tragici sul momento.

Ci hanno fatto visitare l’ospedale civile (sanità e istruzione gratis in Siria, grave provocazione ai globalizzatori). Qualche sanitario, nessun degente se non al pronto soccorso, nosocomio vuoto. Una collega tedesca della RTL, isterica e provocatrice a 360 gradi, quanto può essere un soggetto decerebrato da ignoranza, pregiudizio e supponenza, dà in escandescenze: “Siete degli idioti, ci fate visitare un ospedale vuoto, ci nascondete la vostre vittime…” Chi ci accompagnava nel giro, siriani, spesso studenti, residenti all’estero, ma accorsi volontari nel loro paese per dare, dotati di conoscenze linguistiche, una mano nella gestione dei media stranieri, ci porta allora a vedere finestre e corsie perforate da pallottole. L’ottusa collega non aveva inteso la spiegazione dataci all’inizio: vi portiamo a vedere un ospedale vuoto di pazienti perché ripetutamente attaccato da elementi armati. I rivoltosi non vogliano far funzionare la città, la vogliono paralizzare a partire da strutture fondamentali come questa e poi darne la colpa ad Assad. Se feriscono, voglio far morire.

Aveva ragione il governatore della provincia di Homs, Ghassan Abudl Al, quando ci aveva detto che visitare quell’ospedale vuoto era istruttivo. Un altro, questo governatore, che, come tutti i siriani incontrati, esprime la sua, più attonita che irata, constatazione della “discrasia tra realtà effettiva e realtà riferita dai media”, delle riforme offerte e respinte sistematicamente, che ci giura come non ci siano zone controllate dai ribelli, che riflette come 11 mesi di repressione armata avrebbero dovuto allora provocare un numero ben maggiore di vittime, che ha visto manifestazioni di 200, 300 persone, con tra loro non più di 10 ribelli armati che sparano sui poliziotti, tramutate dai media in adunate oceaniche pacifiche e quelle da un milione e mezzo per Assad taciute. Il giorno prima a Homs erano stati uccisi sette civili cristiani e 10 delle forze dell’ordine, tutti registrati negli obitori, ma Al Jazira riportava 17 manifestanti sparati dai militari.
Il fiato di Al Jazira

Come quando giravo per Tripoli vispa e pacifica e Al Jazira farneticava di combattimenti in tutte le strade e della solita proliferazione di “disertori dall’esercito del dittatore”. Qui qualche disertore c’è stato, ma porta i gradi e gli hanno riempito il conto in banca a Londra. Continuano ad essere arrestati uomini armati provenienti dalla Turchia e dal Libano, da dove li spedisce Saad Hariri, ex-primo ministro, amico della Nato e di Israele. Questi i dati del governatore per l’intero territorio nazionale dal marzo 2011: 3.707 uccisi, di cui 2.100 poliziotti e soldati, 324 rapiti e scomparsi; nella provincia: 415 soldati, 503 civili, 186 corpi non identificati. Contatti con l’opposizione? Non ce ne sono. Quella politica non ha né un programma, né rappresentanza e con quella armata non negoziamo.

Se era svuotato dalla paura degli attacchi terroristici il grande ospedale civile di Homs, quello militare, al quale i feriti colpiti dai cecchini non possono rifiutarsi, è colmo. Sono agenti e militari in condizioni a volte disperate, come quelli che avevo visto negli ospedali di Sliten e Tripoli in Libia, ma che almeno sono sfuggiti agli orrori che vediamo inflitti a civili e soldati nelle immagini dei cellulari mostrateci nel Centro Comunitario dei quartieri poi visitati, con esito tragico, dal gruppo di Gilles Jacquier. E’ un’esperienza straziante. Centinaia di donne e di anziani che si presentano alle telecamere con le foto incorniciate dei loro congiunti uccisi, con nei telefonini orrende sequenze di atrocità e torture inflitte dai “ribelli” alle vittime, gole tagliate, corpi smembrati, le stesse identiche procedure praticate a Bengasi, Misurata, Tripoli occupata, contro neri e “gheddafiani”. Se ne fanno garanti i mille lanzichenecchi trasferiti qui dalla Libia dal comandante militare dei ratti a Tripoli, il fondatore di Al Qaida in Libia, Abdel Hakim Belhadj. Questi padri, queste madri, queste figlie e sorelle, cacciati dagli scherani del colonialismo di ritorno in una galleria del terrore quotidiano, hanno i bei volti arabi segnati da un dolore che né pianti, né grida d’angoscia sanno rendere. Vi si accende una luce di affannata speranza quando ci chiedono, tutti, insistentemente, come l’invocazione a un santo, di dire là fuori, almeno noi, la verità. E’ su questa sanguinante umanità che la barbarie dei mercenari Nato ha fatto piovere, poco dopo, i suoi ordigni, portandosi via, oltre a chi quella verità rischiava di portarla via con sé, sette membri di questa comunità e lasciandone dozzine di feriti, mutilati, accecati.

Ne Homs, né Daraa, né Aleppo, né Damasco, né altre città appaiono militarizzate, come ci si aspetterebbe da un “regime che massacra la sua popolazione”. Circolano meno agenti armati che in qualsiasi nostra grande città e rispetto a un paese della sfera atlantica, come per esempio il Messico della presunta guerra al narcotraffico e della vera guerra di classe, la Siria è un parco giochi per bambini. Forse anche troppo, se l’antevigilia del Natale 2011 è stata celebrata dal terrorismo Nato, via terzi, con le autobombe contro gli edifici della Sicurezza nazionale, 25 morti, 50 feriti, in centro città, affollato nel venerdì di festa. Può darsi che le misure di protezione non siano adeguate, può darsi che le autorità siriane non si aspettassero una tale mostruosa escalation terroristica, ma può anche darsi che i maestri del terrorismo mondiale, quelli che sanno far venire giù torri gemelle, far saltare in aria metropolitane e treni e ammazzare uno dopo l’altro scienziati nucleari iraniani, abbiano voluto dar dimostrazione di una guerra contro la quale, alla fin fine, non ci sono difese. La guerra della paura, prima ancora che della morte. Da noi, la minaccia del baratro, della rovina meritata, per portare a termine la mattanza sociale. Da loro, la minaccia che la vita tua e dei tuoi figli è appesa al filo di una Parca le cui forbici non conoscono tregua, per farti desistere dalla resistenza e ricondurti alla schiavitù coloniale. Di fronte a questo sequitur, più che osceni, appaiono grotteschi i tentativi delle “opposizioni”, dei sicari della più forsennatamente feroce coalizione di Stati terroristi della storia, di scaricare sulla spalle del “regime” la responsabilità degli attentati. C’è una specie di transfert, qui: pensano che si possa far credere che anche altri compiano i crimini contro la propria gente di cui sono pratici loro. A partire dall’11 settembre 2001.

E’ stato in un altro venerdì, 6 gennaio, che ho avuto esperienza diretta di tale terrorismo dalle chiare impronte di specialisti USraeliani. Scelta degli obiettivi, manipolazione e utilizzo di operativi finali, organizzazione e mezzi, non sono sistemi padroneggiati dalla marmaglia raccogliticcia di mercenari di Libia, Qatar, Afghanistan. Questa volta l’esplosione (autobomba, uomo bomba?), non lontano dagli uffici governativi, è avvenuta davanti alla stazione di polizia del quartiere centrale di Al Maidan, sotto un cavalcavia dove era sistemato il parcheggio di auto della polizia e autobus urbani e dove scorreva il fiume della folla da e per la moschea. 26 morti, un centinaio di feriti, 11 poliziotti, altri civili a piedi o su bus. Un sottopasso scelto come camera di scoppio, per il massimo della strage. Carneficine del genere hanno sempre un marchio, un mandante. Quest’ultimo è sempre lo stesso, quelle dei missili sulle case degli uomini, quello degli assassinii mirati, quello della “guerra a bassa intensità”. Quello del terrorismo di Stato.

Con una corsa all’impazzata, tra vetture saettanti da e per il luogo dell’eccidio, sirene di polizia, vigili del fuoco, ambulanze, giungiamo sul posto mentre stanno portando via gli ultimi corpi. Quelli che si possono ancora definire tali, ché da muri, selciato, macchine sventrate, soffitti, si stanno raccogliendo, tra vaste pozze di sangue ancora rosso vivo che serpeggiano sul suolo formando arabeschi splatter, come quelle create dai rivi di sangue di mattatoio su terreno diseguale, frammenti di esseri umani: crani a metà, mani, viscere, grumi indistinguibili lungo tutta una serie di sedili sul pullman. Chiazze di sangue sulla pancia del viadotto che scorre su di noi alto 15 metri. Intorno tutto un compresso silenzio di chi va operando, raccogliendo, analizzando, lavando, enumerando, circoscrivendo. Silenziosi e pallidi negli uffici, con passi in giro senza senso, i poliziotti dell’edificio le cui finestre sono andate in frantumi, le cui pareti sono crepate, i cui arredi e cose si sono disperse e mischiate come in un gioco di Shanghai.

Un silenzio che dura attimi eterni e che, alla fine, viene screziato da grida lontane, sempre più vicine, sempre più forti e folte: Allah, Bashar, Siria u bas. Alla fine saranno migliaia, donne in testa, urlanti come menadi della tragedia greca: tra gli slogan per Bashar e la Siria si fanno largo, acute, le grida di queste donne. Sembra qualcosa di istintivo e immediato. Ma se ti avvicini senti un discorso articolato, in inglese quando ti riconoscono straniero, sul terrorismo dei veri Stati canaglia, sulla strategia del colonialismo, sull’obbrobrio delle tirannie islamiste, su Israele dietro a ogni guaio subito in mezzo secolo da questo paese, sull’irriducibilità delle scelte di un popolo antico, consapevole, coraggioso, civilissimo, buono. Sono sempre loro, le donne, che si fanno sotto per dare parole al dolore, alla rabbia, alla chiarezza delle cose. Come in America Latina, in Egitto, in Libia, in Iraq, sono le donne a dare corpo alle contraddizioni vere, ad assumersi l’avanguardia. Meglio degli altri, sanno sulla pelle cosa è in gioco.

Avevo visto gente sminuzzata dalle bombe, incendiate dal fosforo, fucilata, segnati a vita dalla tortura, bambini serbi morenti in incubatrici spente dalle bombe di D’Alema, devastazioni senza fine, corpi sbiancati, svuotati di sangue, estratti dalle macerie, un reporter amico iracheno, Ayub, frantumato da un missile a Baghdad. Ma quanto mi schiaffeggiava la vista nella carneficina di Al Maidan non aveva confronti. Il cervello va in corto circuito per eccesso di input al di là del concepibile, del sopportabile. Una consapevolezza prevale: ci sono, ci sono gli Untermenschen, i sottoumani, e non sono solo quelli che inventarono il termine, oggi sono coloro che allora erano dall’altra parte. Ci si attacca alla telecamera come a un salvagente e si gira, si gira. Si gira fino ai funerali, immediati nel giorno dopo per norma islamica, dove appaiono imam, preti cristiani, ministri, notabili e la solita folla immensa, composta davanti alla fila estenuante delle bare col vessillo nazionale, ma che divampa in frenetiche invocazioni e anatemi alla chiusura della cerimonia. All’interno della moschea uomini in ginocchio e a mani profferte piangono su bare, bandiere e immagini dei derubati della vita. Sembrano il trailer di un film: “Siria”.
Obama, Hillary, e il logo della loro fanteria Fratelli Musulmani

Viaggiando per città e borghi, vedendo dalla macchina scorrere bancarelle zeppe di commestibili, meravigliosa e variegata verdura, lucenti montagne di frutta, pane, dolci, carni e turbe che vi si avvicendano, passeggiando per Hamidiyeh, il più bel suq del Medioriente, scintillante di stoffe e gioielli, non pare che abbia causato gravi effetti la grandinata di sanzioni che, impedite all’ONU da Russia e Cina, vengono illegalmente imposte dai vari governi e organismi dell’Alleanza dei Necrofori, Usa, Ue, Regno Unito, Francia. E dalla Lega Araba, quell’Idra dalle teste coronate, scudiscio di serpenti agitato in prima persona dall’obeso despota qatariota, Hamad bin Khyalifa Al Thani, espressione morfologica di ottusa scaltrezza, tracotanza e corruzione.
L’Emiro del Qatar Al Thani

Fattosi capobastone dell’offensiva vandeana, accanto ai più accorti sauditi, questo protagonista dell’involuzione araba, dopo aver contribuito con denari, mezzi, media e lanzichenecchi al disfacimento della Libia, ora è il più vociferante sostenitore di un intervento militare arabo in Siria. L’emiro, finto per un po’ di essere antisraeliano, se ne è rivelato alleato cruciale diventando ufficiale pagatore del mercenariato islamista e di quei Fratelli Musulmani, cavallo di Troia da sempre degli interessi occidentali, che da oltre mezzo secolo sognano la rivincita contro il nazionalismo antimperialista e antisraeliano arabo, socialisteggiante e laico, dei Nasser, Saddam, Assad, Gheddafi, Buteflika, Boumedienne, El Hamdi (Yemen), Nimeiry. Ma se bancarelle e negozi sono affollati e Damasco soffoca nello smog di un traffico di livello romano, caotico, ma civile, rari clackson e mai i vituperi e le risse tra conducenti che rendono bruti noialtri, nel mio albergo moresco, evocazione fedele delle Mille e una notte, tra fontane, ceramiche, lucidi ottoni da caffè, piante lussureggianti, sono l’unico ospite per una cinquantina di stanze. Ma nessuno del personale è stato licenziato causa crisi e tutti mi circondano di quell’esuberanza di attenzioni e sorrisi che normalmente verrebbe distribuita tra tanti clienti. Il personale è arabo, curdo, druso, cristiano, musulmano. Fanno come se l’albergo fosse pieno: lucidano ottoni, curano fiori, spazzano e lavano, ti portano ogni due per tre il ciai, il tè alla menta che rende acquetta ogni Twining’s. Nulla deve essere fuori posto quando torneranno gli ospiti. Perchè torneranno nella Siria vittoriosa. Intanto curano l’amicizia con me: dopo le domande e il racconto relativi a figli, scuola, ricordi, immancabile la deflagrazione della rabbia, più contro i media mendaci e traditori, di cui, evoluti, hanno conoscenza diretta, che non contro il nemico sul terreno e alle porte. Primo della lista, senza fallo, l’emiro del Qatar, minaccia di annichilimento di tutto ciò che è stato conquistato, negli anni, nei secoli. Hanno naso fino, i siriani. Memori del colonialismo, feroce ma vinto, ne sanno riconoscere all’istante la ricomparsa, e i quisling che lo agevolano. Tra di loro, a ogni attenta osservazione, questi ragazzi appaiono una famiglia solidale e affettuosa. Romperla. ottenebrarli gli uni contro gli altri, è l’arma dell’Impero, prima che intervenga il complesso militar-industriale, motore dell’inciviltà neoliberista e della soluzione finale.
Al Thani tra dirigenti Nato

Dell’accanimento sanzionatorio contro la Siria, mirato come in Iraq, Iran, Libia, a piegare le ginocchia della resistenza popolare attraverso guerre tra poveri e frustrazioni da imputare al governo, l’effetto più drastico e visibile è la scomparsa del turismo, seconda voce dell’economia siriana. Poi ci sono, innumerevoli, enormi edifici popolari non finiti. Scheletri scarnificati, dalle occhiaie nere, a significare il solito furto dei fondi sovrani all’estero, il crollo delle importazioni, la paralisi dell’edilizia, industria portante. Se il paese è, grazie a una florida agroindustria, largamente autosufficiente sul piano alimentare, se le tradizionali produzioni siriane di tessili non abbisognano di interventi esteri per soddisfare i bisogni interni, il turismo verso le ineguagliabili ricchezze storiche e bellezze naturali, ottimamente preservate, è stato la prima vittima della sobillazione, dell’irruzione di gangster armati e, più che altro, dalla fanfara mediatica impegnata a trasformare una biscia in cobra. Ne soffrono pesantemente tutti i servizi attinenti all’ospitalità, ai trasporti, alla ristorazione, ai prodotti dell’elegante artigianato arabo. Si farà più grave, in mancanza di una sconfitta della cospirazione colonial-reazionaria, la carenza dei carburanti e dei combustibili nafta. La Siria, modesta produttrice di petrolio, ne ha quanto basta per il consumo interno, ma ha perso i pur redditizi sbocchi esterni e ha una limitata capacità di raffinazione. Il venire meno di questi idrocarburi avrà l’effetto desiderato e a suo tempo conseguito in Iraq (ricordate il milione e mezzo di vittime dell’embargo occidentale?) e in Libia: la paralisi della vita sociale ed economica: difficoltà a raggiungere il posto di lavoro, le strutture sanitarie e dell’istruzione, i mercati, i famigliari. L’alleanza con l’Iran, quella con mezzo Libano, i traffici con la Giordania, ostile, ma attenta ai suoi interessi, il sostegno di Russia e Cina hanno finora impedito conseguenze gravi. Ma sarebbe ora che negli ambienti antiguerra mondiali ci si muovesse per denunciare e bloccare il terrorismo genocida delle sanzioni e degli embarghi finalizzati non, come sarebbe in Palestina, a punire gli oppressori di un popolo, ma a sfiancare chi agli oppressori e assalitori resiste, minandolo nella salute, nel morale e nella lealtà al proprio paese.

Ancora un ospedale, quello militare della capitale. Ne è direttore il generale Maurice Mawad, un cristiano che esordisce chiedendosi perché sia tanto flebile la voce del papa sulle tragedie che vanno sconvolgendo i popoli arabi. Denuncia, con veemenza dettata dalla partecipazione diretta al compianto per commilitoni al servizio del paese, il vergognoso occultamento da parte dei media occidentali, dei militari caduti sotto il fuoco dei rinnegati, figli del popolo siriano sacrificatisi in sua difesa. Si chiede cosa avrebbe fatto Obama se la comunità musulmana fosse insorta contro lo Stato e avesse chiamato a rinforzo, oltre ai narcotrafficanti messicani e colombiani, sanzioni e “operazioni speciali” russe e cinesi. Quando gli chiedo se non sentisse la Siria isolata nel contesto geopolitico e geografico, con nemici a quasi tutti i confini e nella sedicente “comunità internazionale”, citati gli scontati amici russi, cinesi, iraniani, perfino iracheni del regime scita, ribadisce un principio – ci sono ostili i governi, non i popoli – che è tanto vero nel mondo del 99% contro l’1%, quanto è deformato dai tiranni oligarchici dei media.

Riprende il concetto anche Elias al Mourad, presidente dell’Unione dei Giornalisti ed ex-direttore del quotidiano del Baath, quando afferma che un governo può resistere se isolato nel contesto internazionale, vedi Cuba, ma non resiste un giorno se isolato dal proprio popolo e se non ne sostiene in primis la componente più bisognosa. Con Elias mi si offre anche l’occasione per entrare nel merito della situazione istituzionale e delle riforme in corso. “Ci sono nove partiti nel paese e nel parlamento, due sono comunisti, tutti sovvenzionati per l’organizzazione, la promozione, le pubblicazioni. Solo il Baath si autofinanzia. Noi chiediamo a chiunque voglia creare un partito di presentare 7000 firme raccolte, in proporzione alla popolazione, in tutte le provincie. E’ vero che il Baath aveva un ruolo preponderante, ma questo era una necessità per la nascita e crescita del paese, per garantire unità e resistenza alle costanti aggressioni esterne. La maggioranza dei consensi non ci è mai venuta meno e posso assicurare che gli strumenti della comunicazione in mano allo Stato non sono mai stati unilaterali e mendaci come quelli che, da voi, pretendono di raccontarvi la realtà".

Ora, mi spiega ancora il giornalista, "è al lavoro per la nuova costituzione un comitato di 27 persone. Vi sono rappresentati il Baath e tutte le opposizioni politiche, le varie religioni, i curdi, più il meglio dei nostri giuristi. Il progetto verrà sottoposto al parlamento espresso dal libero e controllato voto. Il parlamento proporrà modifiche, vi sarà la presa d’atto del presidente e poi la legittimazione col voto popolare. Rimangono tre punti irrinunciabili: il ruolo del presidente, il laicismo e pluralismo religioso, il rapporto conflittuale con Israele. E conclude con un riferimento evangelico: “Gesù aveva appena 12 apostoli e ne bastò uno che prese i soldi e cambiò la storia. Noi in Siria siamo 23 milioni, e di Giuda ce ne sono pochi”.

La larga strada tra villaggi e nulla nerastro di un deserto che ha reso forti questi abitanti, a volte duri, sempre in viaggio e alla ricerca tra loro per millenni, in cui si ergono robuste e indomabili testimonianze di intelligenze lontane nel tempo, confuse nell’aria vibrante con monti pietrosi, è in buona parte la stessa che da Amman porta a Baghdad. E’ la via di Damasco, delle rivelazioni che determinano scatti storici. L’ho fatta tante volte in tanti decenni, quando Damasco e Baghdad rilucevano di forza, giustizia, dignità. Qualità intollerabili per i licantropi che, dalla loro notte della ragione e del terrore, si sono avventati su queste strade dell’ umanità in cammino. Nel 1991 della “Tempesta nel deserto”, quando in tre mesi gli Usa lanciarono sull’Iraq più bombe che sulla Germania nell’intero secondo conflitto mondiale; negli anni ’90 quando il cappio dell’embargo giustiziava 1,5 milioni di innocenti, di cui 500mila bambini; nel 2003 quando con “Colpisci e terrorizza” il paese fu cannibalizzato, ma poi mai ricondotto alla sottomissione, se non a quella di una cricca di vendipatria. E sempre ritrovo nel respiro il profumo di datteri, tè, olive, montone abbrustolito, carbonella, mattoni di fango, calda umanità, un cordone ombelicale fatto di sorrisi, ricordi, comunanza, che mi lega a queste genti come l’assetato è vincolato all’oasi nel deserto. Che la Siria, che i di gran lunga migliori arabi vivano. Disse Maxim Gorky, il grande scrittore rivoluzionario russo: “Ognuno, mio amico, ognuno vive per qualcosa di meglio a venire. Ecco perché dobbiamo rispettare e essere premurosi verso ogni uomo. Chissà cosa ha dentro, perché nacque e cosa potrà fare”. Adam Mohammed me l’ha ripetuto all’araba: “Devi ritenere buono chiunque incontri. Fino alla prima esperienza negativa”.

Venivano dall’antica Ugurit, a fianco dell’odierna Lattakia, i fenici che depositavano sulle spiagge della Trinacria offerte di beni preziosi, alimenti rari e porpora, benessere del dentro e del fuori. Prendevano in cambio, zinco, ferro, zolfo. E ne scaturivano scambi a livelli altri, di poesia, industria, scienza. E altre comunità, più vaste e colorite. Da quelle coste, poi, qualcuno del nostro giro ritenne opportuno lanciare un Cartago delenda est. Incorreggibili e ingrati, da quelle coste noi oggi rispondiamo ancora con il ferro, ma col ferro dell’offesa, che non costruisce ma porta morte. Cosa c’importa se quello Stato, in cui sono interrati i semi della nostra conoscenza, non corrisponde millimetricamente alle configurazioni sociali che vagheggiamo. E’ un problema nostro. Importa che una nazione, portatrice di valori umani superiori ai nostri e quindi garante del progresso umano, laddove da questa parte ce ne sono gli affossatori, sia sotto attacco dalle forze della fine del mondo. E se anche la fine del mondo sta scritta, inesorabile, nel firmamento, non vale la pena battersi contro i mostri, i draghi che, già prima dell’uomo, impedivano l’evoluzione verso l’armonia? Non vale la pena abbellire un eventuale epilogo lanciando sulle fauci del mostro missili di dignità? Qualcuno nel cosmo lo deve sapere e portare avanti.
Sennò, cosa ci stiamo a fare?


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FIRMATE E FATE CIRCOLARE IL SEGUENTE APPELLO CONTRO LE SANZIONI, LE AGGRESSIONI E LE MINACCE DI GUERRA A SIRIA E IRAN. Si costruiscano gruppi in merito su Facebook.
Bernd@freundschaft-mit-valjevo.de
All’indirizzo qui sopra si possono inviare le adesioni all’appello in calce che, originato in Germania, ha già raccolto migliaia di firme e che va esteso internazionalmente.
Fermare i preparativi di guerra! Eliminare l’embargo!
Solidarietà ai popoli dell’Iran e della Siria!

Diecimila morti, una popolazione traumatizzata, un’infrastruttura grandemente distrutta, uno Stato disintegrato: ecco il risultato della guerra condotta da Usa e Nato per saccheggiare le ricchezze della Libia e ricondurla al dominio coloniale. Ora viene apertamente preparata la guerra contro Siria e Iran, paesi strategicamente importanti e ricchi di risorse minerali che conducono una politica indipendente e non si sottopongono agli ordini delle potenze occidentali. Un’aggressione Nato alla Siria o all’Iran può portare al confronto diretto con Russia e Cina, con conseguenze inimmaginabili.
Con costanti minacce di guerra, la collocazione di forze militari ai confini di Siria e Iran, come con azioni terroristiche e di sabotaggio eseguite da reparti speciali infiltrati, gli Usa e i paesi Nato impongono a questi Stati una condizione di emergenza che vorrebbe sfiancarli. Cinicamente e con disprezzo dei diritti umani gli Usa e l’Unione Europea tentano con le sanzioni di paralizzare gli scambi commerciali e finanziari di questi due paesi. L’economia di Siria e Iran viene fatta precipitare in una crisi acuta che faccia aumentare la disoccupazione e peggiori drasticamente i rifornimenti di beni essenziali. Eventuali conflitti sociali ed etnici interni ne devono risultare accentuati, se ne deve sviluppare una guerra civile, allo scopo di creare pretesti per un intervento militare da lungo tempo programmato. A questa strategia delle sanzioni e della pressione bellica partecipano l’Unione Europea e il nostro governo.
Facciamo appello ai cittadini, ai partiti, ai sindacati, ai movimenti pacifisti, alle Chiese perché si oppongano coerentemente a questa politica di guerra.
Chiediamo al nostro governo
- Di sospendere immediatamente e senza condizioni le misure sanzionatorie contro Siria e Iran;
- Di affermare che non parteciperà in alcun modo a una guerra contro questi Stati e che non consentirà l’utilizzo di installazioni nazionali per un’aggressione Usa e Nato;
- Di impegnarsi a livello internazionale per porre termine alla politica dei ricatti e delle minacce di guerra contro Siria e Iran.
I popoli di Siria e Iran hanno il diritto di decidere da soli e sovranamente l’ordine politico ed economico della propria società. Il mantenimento della pace esige che si rispetti in modo assoluto il principio della non interferenza.