venerdì 10 marzo 2017

FOGNA OCCIDENTE, PREDA AFRICA, LUCE ERITREA

Fogna Occidente, Preda Africa, Luce Eritrea

https://youtu.be/TGeFkn_nPJs  link dell’incontro con la Comunità eritrea di Milano in occasione della presentazione del docufilm “Eritrea, una stella nella notte dell’Africa

Mollare tutto?

Qualche volta mi è capitato di pensare all’espatrio. Via da questo rottame di paese che, dopo i guizzi di Rinascimento, Risorgimento, Resistenza anti-nazifascista e ‘68, brevi sussulti di vita nella morta gora del conformismo, opportunismo, servilismo, trasformismo, familismo, clientelismo, il tutto avvolto e protetto dal clericalismo, che dalla caduta di Roma, anzi, da Giuliano l’Apostata in poi, ci ha fatto attori unicamente di servo encomio e codardo oltraggio. Ma poi inciampavo in qualche verso di Alighieri o Montale, in qualche operetta morale di Leopardi, in un inno di Manzoni, in una lettera di Gramsci, in una pagina di Fenoglio o Calvino, in una cronaca  della Repubblica Romana, nel monumento dei bersaglieri a Porta Pia che celebra la disintegrazione del potere temporale della Chiesa, in una foto di Mario Lupo (uno dei tanti martiri di Lotta Continua di cui sono stato compagno e amico), dei compagni sardi che ogni giorno si rompono le corna di muflone contro le basi Nato, di chi soffoca tra trivelle e si dà da fare per estirparle… e mi vergognavo di quel pensiero di fuga. E così sono rimasto. Anche se quel pensiero torna ad insinuarsi tutte le volte in cui collera e disgusto arrivano al diapason e si uniscono in un groppo che fa sempre più fatica ad andar giù.


  


Uteri in affitto, bambini a disposizione
Come in questi giorni, dove le nefandezze si succedono a ritmo accelerato e si uniscono in un percorso da galleria degli orrori. Le sciagurate unioni “arcobaleno”, dove la mercificazione e manipolazione dell’indifeso bambino si esaltano in un egoismo parossistico e nichilista.  Madri che non lo saranno mai perché di loro è stata fatta merce generica da banco, il figlio glie l’hanno pagato e glielo possono estirpare impunemente; figli che non avranno mai una madre, ma solo padri chiusi nella sterile gabbia unisex, per un modello di vita che li priva dell’incontro-scontro con l’altro genere, soffio vitale, condizione per la pienezza della maturità e del proprio ruolo nella missione assegnataci dal cosmo: la continuazione della specie. Cose rispetto alle quali la deriva genetica, morale e politica della tarda Bisanzio, o il suicidio di massa dei lemming, sono un rigoglio di vitalismo ed evoluzione.

La fogna ai ratti: tana liberi tutti
Virginia Raggi può fare tutte le sventatezze che vuole, Grillo può sparare bislaccherie altamente inopportune, Di Maio può collocare la Svezia in Oceania, la Lombardi può fanculare amici e colleghi nella Giunta romana quanto vuole, ma nessuno sarà mai così abietto come ogni componente della classe dirigente destra-sinistra italiana, europea, atlantica. Un’ élite antropofaga la cui tanto declamata innovazione tecnologica ha l’unico scopo di decerebrarci per scarnificarci.  Dove la destra è mafia, vampirismo, lordume etico e i miserandi detriti di una sinistra spiaggiata sulla riva della propria inane autoreferenzialità, se non della subalterna complicità con gli antropofagi, la rincorre. Qui una magistratura esemplificata dal “Porto delle Nebbie” romano lancia ciambelle di salvataggio ai delinquenti togliendo le indagini a chi li ha scoperti (il NOE dei carabinieri a cui era stato affiancato, depotenziandolo,il Corpo Forestale), affidandoli  ai produttori di nebbia (quelli comandati dai “fedeli nei secoli” che i delinquenti li hanno messi sull’avviso), strappando inchieste a tribunali non fidati, mandando in pensione procuratori disobbedienti e prorogando quelli allineati. Parliamo del regime Consip-Renzi. Quello detto “della Malavita”, di Giolitti, al confronto era un governo di monaci trappisti.

Stesso discorso per gli Usa, dove una classe politica, primatista storica di genocidi e devastazioni sociali e ambientali rifiutata dal voto, utilizza gli strumenti creati a propria immagine e somiglianza, servizi segreti, giudici, media, pseudosinistre-criptofascisti, banditi finanziari, squadroni della morte, per neutralizzare come da abitudine consolidata (Lincoln, Garfield, Guiteau, Kennedy) chi esce dal seminato del campo circoscritto dalla Cupola. Dai tempi di Eisenhower presidenti, segretari di Stato e parlamentari  hanno brigato con esponenti del Cremlino, raggiungendo con Eltsin addirittura un munifico partenariato. E, a parte gli interessi travestiti (vested interests) personali o di consorteria, se ne avvantaggiava la pace. Molto più di quando questi stessi personaggi brigavano e istigavano con i ceffi del terrorismo di Stato o privato, da Al Qaida a Pinochet, dall’Isis all’Arabia Saudita, da Gladio a Papadopulos, dai Fratelli Musulmani a Napolitano.

La Cia traccia il solco, Obama lo difende
Oggi, svaporata la minaccia del comunismo, rivelatosi il terrorismo islamico apprendista dello stregone Cia-Mossad, si ricupera l’orso russo in salsa putiniana, si monta una del tutto artificiale ma parossistica russofobia e si addebita al presidente e ai ministri non conformi , opportunamente e criminalmente spiati dal predecessore, i più legittimi e quindi, nella post-verità, nefandi, contatti con interlocutori russi, come l’ambasciatore a Washington, diplomaticamente qualificato di “spia e reclutatore di spie”. Contatti assolutamente naturali, auspicabili e proficui, come lo è ogni dialogo che allontani conflagrazioni. Come è d’uso da tempo, ma come, nel consolidarsi degli schieramenti e nel prospettarsi l’ora fatale della scontro finale, s’è perso ogni tentativo di mistificazione, le sedicenti sinistre la fanno da mosche cocchiere. “Il manifesto”, per dirne una, in perfetta sintonia con i talmudisti del New York Times e gli sguatteri dello Stato Profondo nel Washington Post  o nella CNN, svolge il compito con un paginone di finta recensione letteraria sui nuovi poeti russi. Invettiva anti-Putin significativamente sovrastata dalla fotona di due soldati russi gay che, slinguazzandosi, uniti alle ormai epiche Pussy Riot, rappresenterebbero quella società civile, liberatasi dalla zavorra eterosessuale, di cui si spera, prima che occorra l’atomica, che possa rovesciare il regime che si è messo di traverso ai neocon-liberal. Segue, nell’articolo, un concentrato di nequizie putiniane al limite del grottesco, rastrellato dalle più luride Fake News dei media sopra citati.

Per una Cuba che se ne va, c’è un’Eritrea che arriva
A noi, che già siamo messi malissimo di nostro, dagli Stati Uniti, fatta salva gente come  Steinbeck, Fitzgerald, Scorsese, Eastwood, Johnny Cash, quelli del rock, Malcolm X, Muhammad Ali e loro affini, dagli Stati Uniti-Stato non è venuto che male, con un accelerazione senza precedenti nella fase Bush-Clinton-Bush-Obama-Cia. Una criminalità organizzata senza precedenti, sorretta dai signori della guerra e dai sociocidi della Silicon Valley, roba che se Trump ne volesse uguagliare il tasso delinquenziale, si dovrà dare da fare assai. Ecco, se fino a ieri pensavo che ricollocarsi in un paese dell’ALBA, in Latinoamerica, ci avrebbe garantito una prospettiva di vita degna e forse addirittura di vittoria, oggi vedendo come sta scivolando via Cuba e sono sotto tiro Venezuela e gli altri popoli in via di riscatto, tocca guardare altrove. Tipo Eritrea. Che ha pure un buon clima.


Dell’Africa si parla poco perché le si cerca di fare tutto il male possibile. E pensare che noi, Italia, siamo la piattaforma di lancio per tutte le aggressioni in atto, o programmate. Dell’Eritrea alcuni, sempre quelli che fanno da eco allo sbattere di sciabole di Cia-Pentagono-FMI, parlano molto e male perché, dopo lo squartamento della Libia, è forse l’ultimo angolo del Continente dove si percorre una strada con più fiori che spine, più frumento che gramigna, e su cui non sono ancora riusciti a passare né gli artigli delle multinazionali, nè i carri armati dell’Impero. Non mi rimanesse che poco tempo per tentare di mettere un po’ di sale sulla coda degli antropofagi e per divertirmi a contribuire con i “populisti” a tirar fuori il mio paese dal servo encomio a Usa e UE, ci andrei pure a stare in Eritrea. Salvo sentire dal bassotto Ernesto se il trasloco gli sta bene.
Intanto, col nostro lavoro filmato sull’Eritrea, vado frequentando quel che in Italia abbiamo di eritreo. La diaspora antica, scampata al genocidio etiopico, perpetrato tra il 1960 e il 1991 con armi Usa e poi, in forza di ignoranza e pregiudizio, con quelle sovietiche e cubane. E poi quella recente, di ricongiungimento famigliare, studio, ricerca di una prospettiva che le sanzioni e lo stato di non guerra-non pace, imposto dagli ascari etiopi dell’Impero negano in patria, per quanti sforzi da sola riesca a fare. Vi ritrovo, a Bologna, a Milano, ovunque si raccolga questa straordinariamente coesa comunità, venuta in Italia aspettandosi di riscuotere, in termini di accoglienza e considerazione, un minimo del credito accumulato in sessant’anni di colonialismo, quanto avevamo trovato di valori perduti in Eritrea. Quei tasselli del mosaico di una civiltà che fino a qualche decennio fa era ancora anche nostra, specie nel Sud. E che si è spostata sempre più a Sud, ma oltre il mare.

Per la Maturità liceale passata, mio padre mi regalò lo Zigolo Guzzi, una motociclettina due tempi, fedele come un bassotto e che mi legò alle due ruote per la vita. Ci girai l’intera Europa e l’Italia, senza autostrade, sparpagliata tra monti, piani e borghi, da Genova a Capo Passero. Strana creatura, il piccolo centauro rosso che serpeggiava tra i costumi settecenteschi delle donne di Nicastro (oggi, chissà perché, Lamezia Terme), le gagliarde sopravvivenze greco-arcaiche dei discendenti di Pitagora, le colonne di Selinunte frequentate dalle pecore, i pescatori ancora verghiani di Padron ‘Ntoni. In un giro di un mese avrò dormito in qualche casolare abbandonato non più di mezza dozzina di volte. Succedeva che, vedendomi sul muretto col panino in bocca, accanto allo Zigolo, la signora affacciata al primo piano mi chiamasse su a mangiare la pastasciutta insieme ai bambini. E, alla sera, a occupare un letto. Forse è così ancora oggi, a presentarsi diciottenne, con i segni dell’amore per Sicilia e siciliani sulle labbra e su uno Zigolo.

Il nostro Sud si è spostato in Eritrea
E’ la disponibilità e l’interesse per quel che li circonda e li incontra, greci, arabi, normanni, da cui nasce la loro gioia di vivere, a dispetto di tutto. E’ così in gran parte del Sud del mondo. Tra gli arabi, che all’Occidente risultano ostici anche per questo, e in Africa, almeno nei paesi da noi non contaminati come l’Eritrea che, anche per questo, subisce calunnie, sanzioni e aggressioni. Parlando di quelli che conosco meglio. Basterebbe, per capirlo, un Elias Amarè, grande intellettuale, prestigioso rappresentante del suo paese, che molla tutto, il lavoro, gli amici, i riposi e gli impegni, perfino la moglie negli Usa, per sbattersi con noi, assediato dalle nostre esigenze e impazienze, per tutta l’Eritrea, quella di fuori e quella di dentro, per farci entrare nel suo corpo e nella sua anima. Senza perdere un attimo il sorriso, l’affettuoso scambio di sfottò, l’intesa sempre più profonda. Suscita odio vedere che altri sanno ancora volersi bene, si godono la vita in comunità e, come diceva Vittorio Arrigoni, restano umani !

Dopo Bologna, Milano. La comunità più numerosa. Passo per Piazza del Duomo e trovo palme, quasi fosse un anticipo di Africa. Non mi pare che stiano male. Sullo sfondo sta un palazzo che assomiglia a quelli più belli di Asmara. Più  ci accostiamo all’Africa e meno a Bruxelles o New York, è meglio ci va, ci andrebbe. L’unica macchia, indelebile però, è che quell’oasi verde è marchiata Starbucks, la multinazionale del caffè-pozzanghera, la McDonald’s del caffè, venuta a umiliare la nobilissima storia dei nostri, dei veri, caffè. Quelli che ad Asmara sono vivi e vegeti e si chiamano Bar Tre Stelle o Bar Impero. E niente Starbucks o McDonald’s. E i centri commerciali non sono orridi silenziatori e appiattitori sociali, ma mercati dei mille colori e mille dialoghi nell’ombra dei portici o sotto il sole.
Bologna, ascoltando l’inno eritreo

Sono arrivati a centinaia, una delle comunità immigrate più folte che abbiamo, a incontrare Sandra e me per vedere il nostro film “Eritrea, una stella nella notte dell’Africa”. Tra le tante, è anche la comunità più legata al suo paese, a cui resta fedele, di cui sa la verità, a cui offre sostegno. Comunità che è riuscita nel miracolo dell’intelligenza e della cultura di stare tra noi, in armonia, condividendo spazi e modi, senza la tanto celebrata, ma tanto colonialistica, “assimilazione”, mantenendosi coesa, fedele a se stessa e alla patria. Diversa da quella cinese, chiusa, separata, ombrosa, con un sottobosco invisibile di schiavi, straripante di misterioso contante che tutto compra e tutto omologa nell’indistinto, che sradica storia, virtù antiche, identità, in un nulla che non è né cinese, né italiano.
Oggi degli eritrei immigrati ci sono la seconda e terza generazione, spesso nate qua. Ci vorrebbe una maggiore frequentazione tra i figli e nipoti che hanno subito l’oppressione coloniale, ma anche lo stimolo alla modernità, e i figli e nipoti che l’hanno imposte. Oggi il loro destino è diventato comune e i secondi hanno tutto da guadagnare a conoscere la verità dei primi. Come ha capito la Casa Rossa di Milano, un’isola di dinamismo politico e corretta informazione, che ha visto un centinaio di italiani vedere e ascoltare l’Eritrea in fotogrammi e parole. Segno confortante che, dopotutto, l’Eritrea non è così lontana dagli occhi, e quindi dal cuore, come, con le note di Sergio Endrigo, denunciamo nell’ultima canzone del film.

Abbiamo suggerito un ponte che superi le distanze, tutte mentali e politiche. Architetti e urbanisti italiani, eredi dei grandi che negli anni ’20 e ‘30  hanno costruito le magnifiche città eritree in stile liberty, eclettico e poi razionalista, si adoperino e adoperino le istituzioni per assistere il governo eritreo a salvaguardare questo patrimonio senza uguali, che l’Unicef vorrebbe a luglio proclamare “patrimonio dell’umanità”. E’ il minimo che possiamo fare per un paese al quale ci lega un cordone ombelicale che ci fa reciprocamente genitore e figlio. Lo abbiamo fatto seccare, quel cordone. A rinsanguarlo, a rifarci passare il flusso delle nostre vite, ci guadagniamo soprattutto noi.

Africa, la preda

Addestratori Usa di truppe africane

Non c’è paese, dei 53 africani, salvo l’Eritrea, dove gli Usa non abbiano una presenza militare di qualche forma, o di intelligence, nemmeno quelle mascherate da Ong umanitarie, tipo USAID e succursali spionistiche e destabilizzanti varie. Degli Stati Uniti, con grande accelerazione sotto la coppia sinergica delle guerre, Obama-Clinton, si impone essenzialmente il pugno militare. Con un nuovo comando per il continente, AFRICOM, voluto dal presidente caro ai colonialisti di sinistra e destra e, visto il perdurante rifiuto dei governi africani, determinato a suo tempo da Muhammar Gheddafi, è installato da noi, a Napoli, una specie di Hub per il Sud, reso possibile dall’obbedienza della complice marca imperiale. Il ruolo di supporto alla militarizzazione Usa dell’Africa si avvale anche della base Ederle di Vicenza, dove sono installate le truppe di intervento rapido dell’US Army Africa.  Tutte cose che, come le 90 atomiche a Ghedi e Aviano pronte all’uso, violano la nostra costituzione.

Penetrata in Africa facendosi strada, tra le macerie della Libia, tra due pilastri della sovranità e indipendenza non ancora minati, Algeria e l’Egitto riscattatosi dalla quinta colonna coloniale dei Fratelli Musulmani, la Nato, che ama millantarsi “comunità internazionale”, ha affidato al revanscismo francese il recupero del Sahel e dell’Africa sub sahariana: Mali, Niger, Ciad, RCA.  Allo scopo ha infiltrato nella regione tra Africa mediterranea e Golfo di Guinea i mercenari collaudati in Medioriente, l’Isis, che, oscurando la resistenza nazionale genuina di popolazioni come i Tuareg, forniscono il pretesto per la riconquista.

Per appropriarsi del petrolio sudanese le grandi potenze, con il supporto di Israele e del Vaticano attraverso i padri comboniani (Zanotelli), hanno istigato, armato e finanziato al Sud movimenti secessionisti su base etnico-confessionale, riuscendo a mutilare il paese e provandoci ora con la regione del Darfur. Intanto il Sud è dalla sua nascita, 2011, uno Stato fallito in preda alla malnutrizione e a feroci conflitti intertribali con opposti sponsor miranti alle fonti energetiche. Carestie imperversano nello Yemen sotto attacco Usa-saudita, nella Nigeria devastata dalla quinta colonna jihadista Boko Haram, in Somalia dove si succedono regimi fantocci sostenuti, contro la resistenza degli Shabaab, dai raid Usa e da una spedizione dell’Unione Africana, Afrisom, che si rende colpevole di innumerevoli atrocità e prevaricazioni, e in Etiopia dove un regime dispotico consente la cessione di terre a India, Arabia Saudita, Cina, le Grandi Opere idroelettriche delle multinazionali, anche italiane, e la conseguente deportazione e decimazione di intere popolazioni. La tragedia del Congo, insanguinato, disarticolato dagli interessi collidenti delle multinazionali occidentali e dei rispettivi signori della guerra locali, dura fin dall’assassinio del suo liberatore Patrice Lumumba, nel 1961. Gli antropofagi coloniali non si accontentano dei 20 milioni di congolesi trucidati da Leopoldo del Belgio, un olocausto ad oggi insuperato, checché se ne dica.
 Patrice Lumumba

Discorsi non dissimili si possono fare per Kenya, Uganda, gli Stati del cono Sud, come Tanzania e Mozambico, la cui decolonizzazione è stata ottenuta da forze rivoluzionarie che molto promettevano e poco hanno mantenuto. Promesse mancate anche quelle del Sud Africa, dove Nelson Mandela non ha saputo accompagnare la fine dell’apartheid con quella dello sfruttamento di classe e con una rivoluzione sociale che riscattasse davvero la popolazione nera. In questi e in tutti gli altri paesi dell’Africa la pressione militare Usa e Nato e i ricatti della potenza economica occidentale hanno installato classi dirigenti omologhe e subalterne ai modelli neoliberisti, formalmente democratiche grazie a un multipartitismo fasullo che esclude le masse popolari e si regge su clientelismo, corruzione e supporto militare americano. Un supporto militare del quale costantemente il Pentagono chiede il rafforzamento, anche per contrastare con la forza il contributo allo sviluppo che a molti paesi africani viene dagli investimenti e dalle infrastrutture fornite da Cina e Russia.

Eritrea, un’eccellenza
In questo quadro diventa evidente la condizione di isolamento continentale e, contemporaneamente, di eccellenza anticoloniale dell’Eritrea, libera dai condizionamenti e ricatti di organismi imperialisti come le forze armate e l’intelligence Usa e Nato, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e i vari trattati-capestro di libero scambio con cui l’Occidente perpetua le sue predazioni. In questo contesto è quasi miracoloso aver mantenuto la sovranità, l’indipendenza, la coesione sociale in presenza di molteplici etnie e confessioni e, miracolo vero, aver raggiunto l’autosufficienza alimentare ed essersi posti al riparo, con geniali opere idrauliche e un fenomenale sviluppo agricolo, dalle carestie che devastano periodicamente il continente.
 Milano

Eritrei e italiani un cammino comune
Con i suoi storici e un tempo profondi legami con l’Eritrea, l’Italia avrebbe ogni titolo e ogni opportunità per rapporti di intensa collaborazione con un paese dalla tante risorse. Collaborazione accessibilissima, ma che è ostacolata sul piano politico, culturale, psicologico, dalla virulenta campagna di calunnie e falsità che le potenze neocoloniali conducono contro una nazione, appetibile anche perchè collocata nella posizione strategicamente più cruciale tra Oriente e Occidente, Sud e Nord, che non si piega ai loro diktat. Campagna supinamente ripresa anche da ambienti politici e istituzionali di un’Italia che avrebbe ben altro obbligo di affrontare il suo debito verso l’ex-colonia. E ancora una volta le sedicenti sinistre a far da mosche cocchiere al colonialismo.  I giovani eritrei d’Italia e d’Europa, quelli venuti in anni recenti o nati qui, possono dare un grande contributo a lacerare il tessuto di menzogne con  cui si tenta di strangolare il loro paese. Per questo la difesa della tradizionale coesione interna della comunità, delle sue usanze e tradizioni, non basta più. Occorre uscire allo scoperto, incontrarsi con il paese ospitante, frequentarne i giovani, i movimenti politici, culturali, sociali, che nell’Eritrea possono vedere un modello, un fratello e una luce. Una stella nella notte dell’Africa. E di tutto l’Occidente. 
Milano

Bologna

4 commenti:

Paolo Selmi ha detto...

Caro Fulvio,
grazie per questo lavoro ricchissimo di spunti di riflessione e di ricordi autobiografici. Ricordi che ci calano in un passato troppo remoto per un popolo italiano con la memoria sempre troppo corta. Un passato dove la maggioranza delle persone lavorava o in fabbrica, o in campagna, e dove i concetti marxiani di alienazione, straniamento, reificazione, li viveva sulla propria pelle, li sentiva magari da qualcuno a un dibattito o in sezione, o tramite letture autodidatte, e li faceva propri. E se qualcuno, allora, avesse detto: "Ma no, funziona così. Io ti insemino, tu mi "covi l'uovo" per nove mesi, poi me lo dai e per il disturbo ci aggiustiamo", avrebbero subito intuito la fregatura: la riduzione del corpo femminile a oggetto, a macchina sforna-figli, la reificazione della donna, la sua meccanizzazione e l'alienazione, come in fabbrica, di processi vitali dalla sua vita stessa. A chi poi replicasse "e se uno volesse farlo su base volontaria?", risponderebbero: "fai prima un figlio e poi vedi se te ne separeresti mai "su base volontaria"". Il popolo d'Israele "consacrava" il primogenito a Javhé, ma non lo metteva abramiticamente su un altare e lo sgozzava. Riprendo questo mito perché, a volte, certi sentimenti, certi rapporti "di sangue", si diceva sempre in quel passato remoto, nessuno avrebbe mai pensato di doverli tutelare per legge da capitalisti che, rotta ogni barriera tradizionalmente eretta a loro difesa (ecco il cortocircuito in cui cascano, purtroppo, anche molti compagni, e su cui il manifesto ci marcia), procedono a sfondamenti a tutto campo mercificando e reificando anche le ultime frontiere dell'esistente rimaste libere. In quel passato remoto, il "mito" anzi faceva leva su questi legami di sangue, di cui dava per scontato non solo il bagaglio simbolico, ma anche affettivo totale e totalizzante, per veicolare i propri messaggi, di natura strettamente religiosa. Oggi... "Abramo! Eccomi! Dammi tuo figlio, il tuo unico figlio, Isacco!" Si, però voglio gratis i prossimi che posso ordinare qui a tot, qui a tot, e qui a tot. Li vorrei biondi con gli occhi azzurri: lì li fanno che è un piacere, hanno appena assunto dieci dall'Est della razza migliore. Solo che mi devi dare una mano con le carte perché qui ancora non hanno ancora fatto queste leggi, sono proprio retrogradi". Infine... sempre su base volontaria! Legalizziamo la poligamia! Ti lascio con questa canzone, a questo punto di avanguardia! https://m.youtube.com/watch?v=-aFimeu-4DM
E' tratta da un classico della commedia sovietica, La prigioniera del Caucaso, e cantata da un mito, in tutti i sensi: Jurij Nikulin, attore comico e drammatico, cantante, clown da circo (il circo di Mosca era dedicato a lui, ora non so). "Se fossi sultano / avrei tre mogli / e di tre bellezze / sarei circondato. [...] ma anche le suocere sarebbero tre!"
Un caro saluto.
Paolo

Paolo Selmi ha detto...

Ciao Fulvio!
Il rapporto di Wikileaks di questa settimana parla, in fondo, di una cosa sconcertante ripresa da pochi. Non tanto il fatto che ci spiano, che la CIA ci spia è un dato assodato, e internet è usata ampiamente in questo senso.
La cosa che fa specie, perché pone in ESTREMO DUBBIO la questione della veridicità delle fonti, è l'attività del Gruppo UMBRAGE. Riporto e poi commento:
The CIA's hand crafted hacking techniques pose a problem for the agency. Each technique it has created forms a "fingerprint" that can be used by forensic investigators to attribute multiple different attacks to the same entity.

This is analogous to finding the same distinctive knife wound on multiple separate murder victims. The unique wounding style creates suspicion that a single murderer is responsible. As soon one murder in the set is solved then the other murders also find likely attribution.

The CIA's Remote Devices Branch's UMBRAGE group collects and maintains a substantial library of attack techniques 'stolen' from malware produced in other states including the Russian Federation.

With UMBRAGE and related projects the CIA cannot only increase its total number of attack types but also misdirect attribution by leaving behind the "fingerprints" of the groups that the attack techniques were stolen from.

UMBRAGE components cover keyloggers, password collection, webcam capture, data destruction, persistence, privilege escalation, stealth, anti-virus (PSP) avoidance and survey techniques.

(https://wikileaks.org/ciav7p1/cms/page_22642800.html)

In sostanza, Fulvio, ci ho messo un po' a capirlo ma: questo gruppo COPIA E IMITA LE "IMPRONTE" LASCIATE NORMALMENTE DA ALTRI HACKER (guarda caso russi!) per attività diversive dietro cui lasciare proprio quelle impronte clonate e copiate. Di chi è il marchio di fabbrica di questa intrusione? dei russi. Quindi, son stati i russi.

Ogni altro commento è superfluo...
un caro saluto.
Paolo

Anonimo ha detto...

Ciao Fulvio .
A proposito dell'intervento di Paolo,sempre preziosissimo per le informazioni su Siria,Russia ed Ucraina,una sola osservazione.
Fa riferimento a categorie marxiane e capitalisti ,che pero' non rispecchiano piu' la situazione attuale.Magari la coppia che COMPRA un figlio (inutile girarci intorno con termini possibilmente inglesi , di questo si tratta)e' composta da un impiegato e un contadino . Oppure da un operaio e un parrucchiere .Ormai quei comportamenti che un tempo erano appannaggio di un "alto" ceto,incurante e strafottente nei confronti di chi viveva al di fuori del suo mondo dorato ,si sono allargati .A chi ?A TUTTI,indistintamente.Il capitalismo ha vinto perche' per essere stronzi e' sufficiente avere fatto una vacanza in piu' dell'altro,avere un televisore piu' grande,un'auto con 50 cc di cilindrata in piu'.
Il capitalista 2.0 e' anche l'operaio della Piaggio che va a ballare al Twiga e che spende tutti i suoi soldi per la camicia bianca e per il tavolo,tanto vive coi genitori .cosi' come le impiegate che lasciano la y10 elefantino a un km dal locale e arrancano appollaiate sui tacchi delle loro scarpine di Cenerentola.
Questi sono i "capitalisti" 2.0,pronti a scannare il padre per un videogioco o a comprare un bambino ad una disgraziata se il compagno ha una paturnia e diventa isterico.
E ci credo ti viene voglia di andare in Eritrea,me la fai venire anche a me.
Luca

Paolo Selmi ha detto...

Caro Luca,
hai perfettamente ragione. Attenzione, soltanto, a non mettere insieme il piano ideologico di un certo modo di intendere i consumi con quello, altrettanto ideologico, di vedere un'estensione pressoché illimitata alla sfera del mercato, della compravendita. Sono due piani molto vicini ma, al contempo, ben distinti e necessariamente distanti. Parto dal primo: vengo da un quartiere dove c'erano famiglie che tenevano i figli a pane e cipolla per andare in giro col bmw. Nel mio quartiere c'erano persino "paninari" in salsa bronx che andavano in giro con una bellissima felpa con l'aquilotto e sotto "Emporio", lasciando da parte il cognome dello stilista milanese. Era un bel quartierino, non c'è che dire... Ora, se tizio e caio del mio quartiere decidono di comprare un bambino, e cacciano centomila euro per farlo, e per farlo si indebitano fino al midollo, rubando la pensione ai rispettivi vecchi, solo per apparire quello che non sono, non c'è che dire... siamo sul solco di un dejavu che ho imparato a conoscere dalla fine dei Settanta. Oltre ai beni di lusso esclusivi, il mercato capitalistico genera imitazioni di beni di lusso che arrivano finalmente al popolino che altro non aspettava. Ogni tanto, al gabinetto, mi trovo una bellissima rivista lasciata dalla consorte, che ti mette il vestito da 1000 euri da una parte e la "copia" da grande magazzino da 100 dall'altra: io poi unisco i puntini col container cinese che è appena arrivato a Voltri di quel marchio e che mi trovo a sdoganare col prezzo unitario di 40 dollari... e penso alla doppia fregatura, ma questo è un altro discorso ancora, e non occorre scomodare il barbone di Treviri per questo! :-)
Dove invece lo scomodo, e penso che mantenga intatta la sua vitalità, è nella critica a questa progressiva estensione dei meccanismi capitalistici di mercato a sfere finora "vergini". Parafrasando Jorge e la sua giagulatoria finale nel nome della rosa "E' possibile ridere di tutto, persino di Dio?", sembra quasi che ormai sia possibile comprare e vendere tutto: uomini, pezzi di uomini, funzioni di uomini, geni di uomini; tutto carne da macello, tutto ha un prezzo. Per farlo, è occorso "alienare", "estraniare" e infine "reificare", rendere "oggetto", una parte del corpo. Quando il buon Petri faceva dire al Volonté in catena di montaggio "un pezzo, un culo, un pezzo, un culo", forniva proprio l'esemplificazione di questo concetto. Il marxismo un operaio lo capiva al volo per questo, anche se aveva la quinta elementare. Oggi, il lavoro, anche il mio di passacarte, non è più "un pezzo, un culo, un pezzo, un culo": meglio, lo è, ma mascherato da un'ideologia più sottile, fatta di "lavoro di squadra", di "miglioramento continuo", di "vendere per vivere" (l'ultima in questo senso, è quando han cercato di convincermi, a un "corso", che il bebé che piange vuole vendere qualcosa!): capisci? tutto, dal pianto di un bebé a una gravidanza, da un concepimento a una morte, secondo questi padroni 2.0 mascherati da liberali-liberisti-libertari... è mercato, è mercificazione. Hanno fatto passare per battaglie di libertà l'affossamento di paletti tradizionali che, almeno in alcuni settori vitali, avevano imposto fino ad allora logiche diverse da quelle di prezzo e profitto. In questo senso Marx, specialmente quello dei Grundisse, è molto attuale.
Un caro saluto.
Paolo