lunedì 31 luglio 2017

SOMALIA, CON CHI STARE






A proposito della “Risposta di un africano a Zanotelli” mi preme una rettifica a questo periodo:

“Perché Alex non ha il coraggio di puntare il dito contro chi sta creando i terroristi in Africa, a cominciare dai BokoHaram in Nigeria e Al Shabaab in Somalia? Crede davvero che in Somalia si divertano a fare una guerra civile da trent’anni? A chi giovano questi terroristi se non al neocolonialismo? La War on terror non è forse la nuova evangelizzazione del continente africano? Se vogliamo rompere il silenzio sull’Africa diciamo di chi è veramente la colpa. Quale altra potenza conosciamo impegnata a destabilizzare l’Africa ed il mondo intero con il terrorismo?”

Qui l’autore, che come me conosce l’Eritrea, mostra di non conoscere la Somalia e di cadere anche lui nella trappola delle mistificazioni/diffamazioni della propaganda imperialista e neocolonialista. Sebbene qualche tempo fa un gruppo del grande movimento islamico di liberazione nazionale Al Shabaab, si sia dichiarato seguace di Isis, o, se si vuole, dello Stato Islamico, immediata ne è stata l’espulsione da parte della direzione del movimento. Le foto che dilagano in rete di formazioni Shabaab con vessilli jihadisti favoriscono l’equivoco. Non so di ulteriori affiliazioni, se non quello che, con automatismo sospetto, ad Al Shabaab vengono attribuite dai soliti media mercenari. Si tratta di giustificare un’occupazione coloniale attuata mediante l’utilizzo di una feroce forza “interafricana”, UNOSOM, promossa dall’ONU con l’impiego di soldataglie dei paesi vicini ostili alla Somalia, colpevole di innumerevole atrocità ai danni dei civili, assistita da sempre più massicce incursioni di forze speciali, bombardieri e droni Usa, e affidata al governo di una successione di fantocci mai eletti da nessuno, ma creati a tavolino a Gibuti o a Nairobi dai colonialisti e loro clienti africani.

L’equiparazione a Boko Haram e altre forze terroristiche legate all’Isis è impropria, come è abusivo, improprio e funzionale agli interessi neocoloniali l’uso del termine “terroristi” per Al Shabaab. Mentre tutte le formazioni terroristiche legate a Isis o Al Qaida si sanno e sono dimostrate create, istigate e foraggiate dalle potenze occidentali e da Israele, non v’è nessuna indicazione che questo sia il caso per i ribelli somali. Tutte le manifestazioni di Isis e affini sono finalizzate a destabilizzare i paesi in cui avvengono, nell’evidente interesse del neocolonialismo e dell’imperialismo: dai paesi arabi alla Nigeria, all’Afghanistan, al Pakistan, alle Filippine, agli Uiguri dello Xinjiang, all’Europa. La lotta degli Al Shabaab invece è direttamente contro i regimetti filo-occidentali installati dall’imperialismo, ai suoi protettori Usa e Nato, ai loro complici africani (Kenya). Mi pare una differenza decisiva. E se tutte le formazioni terroristiche scaturite dai progetti e dalle strategia occidentali fanno sistematicamente strame di civili, ovunque, agli scopi noti della frantumazione sociale, dello spopolamento, dell’emigrazione, della militarizzazione repressiva, questo non è mai avvenuto in Somalia, dove le operazioni militari di Al Shabaab sono sempre dirette contro il regime imposto e i suoi sponsor.

 Farrah Aidid

Ma facciamo un po’ di storia. MI è capitato di essere inviato in Somalia nel 1991, pochi mesi dopo il rovesciamento di un  autocrate di lunga lena, Siad Barre, prima leader patriottico anticolonialista e alleato degli URSS ai tempi delle grandi decolonizzazioni, infine, a vento cambiato, fattorino degli Usa e feroce repressore del suo popolo. Dopo di me, per il TG3 venne Ilaria Alpi. Il defenestramento di Barre era dovuto a una rivolta dell’esercito sostenuto  da un’insurrezione di massa, guidata dal generale Mohamed Farah Aidid. Trattandosi di persona indipendente, patriottica, anticolonialista, espressione della popolazione somala, che ho avuto l’onore di conoscere e il piacere di intervistare, in Occidente gli si contrappose il solito burattino, tale Ali Mahdi, caporione tribale, del tutto incapace di contrastare la rivoluzione nazionale guidata da Aidid. Occorreva intervenire con più pesantezza per garantire al meglio il recupero della Somalia, collocata in posizione strategica sulla soglia dell’Oceano indiano e all’imbocco del Mar Rosso e Golfo Persico (quanto l’Eritrea!), o, al peggio, la solita condizione di caos e di Stato fallito, incapace di svolgere un qualsiasi ruolo di disturbo agli interessi occidentali. 

E parte la Missione Nato Restore Hope, in cui americani e italiani si distinguono per efferatezze ai danni dei civili e delle donne, sconfitta nel 1995 dalla resistenza popolare guidata da Aidid. L’Etiopia, caposaldo imperialista nel Corno d’Africa, che già aveva divorato un buon terzo della Somalia (l’Ogaden), dà una mano con ripetute invasioni, regolarmente respinte. Ali Mahdi scompare, ma Aidid, ora presidente della Somalia, viene ucciso in un epigonale scontro con miliziani residui di Ali Mahdi. Da allora è il caos, accanitamente perseguito dai soliti interessi.


La resistenza somala si riorganizza contro l’ennesimo “governo provvisorio” installato dai colonialisti, con l’Unione delle Corti Islamiche, organizzazione sociale storica, di segno moderato (esclude la Sharìa) e dotata di grande appoggio popolare, che passa alla lotta armata e contemporaneamente dà a Mogadiscio e al paese un assetto di pace e di riorganizzazione istituzionale. Sono, dopo 17 anni, i primi momenti di tranquillità e normalità per una popolazione saccheggiata e decimata dal recupero neocolonialista. Un massiccio intervento Usa, accompagnato dall’ennesima irruzione militare etiopica pone fine a questa prospettiva di riscatto della nostra ex-colonia. Una ex-colonia depredata e il debito nei cui confronti l’Italia ha voluto pagare inondandola di massacri bellici e di rifiuti tossici con gli sporchi traffici tra servizi e mafie e signori della guerra locali. Rifiuti tossici, anche nucleari, sepolti sotto nuove strade e terreni agricoli che hanno causato devastanti morie di abitanti e bestiame. Ilaria Alpi e Miran Hovratin, miei colleghi, che scoprirono questi crimini, dai loro autori e complici furono poi eliminati. E la vergogna dell’impunità di questi bonzi delle nostre istituzioni persiste.

Ci fu poi la fase della demonizzazione dei somali con la campagna contro i “pirati”, tesa a liberare le acque territoriali somale da pescatori che ne traevano sostentamento per una popolazione in preda a carestie e denutrizione, per lasciare mano libera ai predatori delle flotte pescherecce delle compagnie del Nord del mondo.

Dalla sconfitta delle Corti Islamiche nacquero gli Al Shabaab. E siamo ai giorni nostri.

Ci siamo coperti di delitti e vergogne come potenza coloniale, come partecipi di aggressioni e sterminii, come avvelenatori che rasentano il genocidio, come  istigatori di migrazioni di massa che sterilizzassero la Somalia e abbattessero salari e diritti dei nostri lavoratori, come assassini di due nostri bravi giornalisti che avrebbero inchiodato i delinquenti di regime italiani alle loro responsabilità. Non aggiungiamo ulteriore supporto ai barbari schierandoci dalla parte sbagliata. Oggi come oggi, gli Al Shabaab sono una forza di resistenza popolare a colonialismo, imperialismo, sguatteri africani corrotti e asserviti..

Forse qualcuno scoprirà che, invece, come i jihadisti sparsi qua e là dai globalizzatori di morte e distruzione, anche gli Shabaab non servono ad altro che a mantenere la Somalia nel caos  Che anche di loro le fila le tirano i barbari. Però oggi è così che non ammazzano o seviziano civili somali, ma gli invasori e traditori del paese. Cosa faranno questi combattenti somali in futuro sta in grembo a Giove e noi ci regoleremo di conseguenza.


domenica 30 luglio 2017

VENEZUELA E GLI ALTRI: GLI AMICI DEL GIAGUARO E GLI UTILI IDIOTI CHE SI TIRANO DIETRO


Sono assolutamente d’accordo con Enzo Brandi e trovo che qualcuno sia sempre troppo superficiale e ingenuo e sistematicamente perda d’occhio il contesto. Troppo facile, troppo comodo.
Quanto al turpe “manifesto” basta vedere come l’emarginazione e censura alla storica corrispondente per l’America Latina, Geraldina Colotti, (di cui accetto che sia stata a volte troppo appiattita sulle posizioni del governo Maduro), proprio nel momento decisivo dell’assalto imperialista e reazionario-clericale al Venezuela bolivariano, sia stato sostituito oggi da quattro articoli del tutto cerchiobottisti, quando non implicitamente comprensivi nei confronti della sollevazione “popolare”, dei cui retroscena e strumenti (boicottaggio, imboscamento, terrorismo, paramilitarismo) si tace e, anzi, si suddividono equamente le oltre cento vittime, in stragrande maggioranza uccise dai terroristi, tra repressione e manifestanti contro. C’è un Serafini che attribuisce a Porto Alegre e agli inani ed equivoci Social Forum (Tobin Tax, uno 0,0 qualcosa al municipio) il grande movimento che avrebbe poi avuto come ricadute Chavez, Morales e gli altri, quando è vero il contrario e fu il Venezuela chavista a innescare la grande emancipazione culminata nell’A.L.B.A., mentre i portoalegrini diffidavano di Chavez, lo ostracizzavano e non hanno mai pronunciato la parola imperialismo (perciò cari a Bertinotti, quanto l’infiltrato subcomandante in Chapas). Diciamo che, come poi s'è visto, nei social forum si facevano le ciarle, a Caracas, La Paz, Quito, i fatti.
Qui ne va del popolo venezuelano e dell’intero movimento latinoamericano di cui ai quattro gazzettieri del manifesto poco cale, come poco gliene cale di analizzare e denunciare i vari complotti Usa e Cia di destabilizzazione (Honduras, Uruguay, Colombia, Argentina, Messico, Guatemala.....).
Personalmente avrei molte rimostranze da avanzare nei confronti di Maduro (corruzione boliborghese dilagante, mancata diversificazione produttiva dall’estrattivismo petrolifero, sordità nei confronti dei movimenti antagonisti bolivariani seri, mancate nazionalizzazioni della grande distribuzione e dei settori finanziari del boicottaggio. costanti compromessi al ribasso con il nemico che punta alla morte del bolivarismo, fiducia in un papa che invece innesca i suoi nazi-cardinali in loco....). Ma guai, oggi come oggi, di fronte al mostro Usa e al revanchismo di una destra clericofascista e, da sempre, golpista agli ordini della CIA, non schierarsi incondizionatamente dalla parte del governo e del popolo bolivariani. Quello che è stato realizzato a favore delle masse da sempre deprivate e sfruttate in Venezuela e, per contagio, in gran parte dell’America Latina, la luce di speranza accesa sul mondo intero assalito dalla necrofora globalizzazione imperialista neoliberista, hanno fatto della rivoluzione bolivariana l’episodio più avanzato di questo inizio millennio e il nuovo riscatto dopo le sconfitte di Zapata e i ripiegamenti dei Castro. Ciò che le forze dell’oscurantismo, della militarizzazione, del nuovo colonialismo, della decerebrazione di massa vorrebbero sostituirgli è esattamente quanto Orwell e Huxley hanno previsto e descritto. L’ulteriore avanzata della notte sul mondo.
Non diamo retta ai pesci in barile, agli sporchi opportunisti, i lanzichenecchi mediatici del sociocida Soros. Qualsiasi possano essere stati i limiti, evitabili e non, della resurrezione bolivariana, essa rappresenta un grandioso tentativo di arrestare la marcia della morte che l’umanità aveva intrapreso al suono dei pifferi della sua componente subumana. Non permettiamo che fallisca, che sia l’ultimo.
Tutto questo vale anche per l’eroica resistenza degli arabi che. dalla Libia all’Iraq, dalla Siria allo Yemen, si oppongono al ritorno dei barbari, sacrificandosi per noi tutti.

Quanto all'articolo "migranti" qui in fondo, pietismi, accoglienze indiscriminate, respingimenti indiscriminati, hanno tutti il difetto, in piena malafede, di ciurlare nel manico: di occultare l'immane, epocale operazione euroatlantico-talmudista di distruzione, a fini di depredazione, dell'Africa da ricolonizzare, grazie allo svuotamento delle sue generazioni giovani, e di messa in ginocchio di un'Europa del Sud che si sa avere nell'uscita da UE ed euro , dalla morsa euroatlantica e dalla partnership di pace e rispetto con l'Oriente, l'unica chance di sopravvivenza
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From: brandienzo@libero.it
Sent: Sunday, July 30, 2017 10:39 AM
To: Marco Palombo
Cc: nowaroma ; comitatononato ; Fulvio ; piero.pagliani@gmail.com ; Alessandro Bianchi ; zambon@zambon.net ; mcspin@libero.it
Subject: R: Re: (ListaNoNato) R: [nowaroma] Liana Vita (Manifesto)- La missione in Libia viola il divieto di respingimenti
Infatti Haftar è l'unico esponente libico che in questo momento difenda in qualche modo l'indipendenza e la sovranità della Libia.
La missione navale italiota è solo un patetico tentativo del nostro governicchio targato PD di sostenere l'incerto "governo" Serraj di Tripoli, nostro alleato, e di opporsi in qualche modo all'attivismo molto più incisivo della Francia nella regione.
Illustriamo chiaramente le ragioni politiche del patetico intervento italiota e non facciamo finta di parlare solo di migranti.
----Messaggio originale----
Da: "Marco Palombo"
Data: 30/07/2017 10.24
A: "brandienzo@libero.it"
Cc: "nowaroma", "comitatononato", "Fulvio", , "Alessandro Bianchi", "zambon@zambon.net"
Ogg: Re: (ListaNoNato) R: [nowaroma] Liana Vita (Manifesto)- La missione in Libia viola il divieto di respingimenti
Haftar si è pronunciato contro la missione italiana, questa è molto fragile.
Purtroppo il Movimento 5 stelle per ora non ha detto una parola.
Ma è possibile che siate sempre così faziosi.
Il giorno 30 luglio 2017 10:19, 'brandienzo@libero.it' via ComitatoNoNato ha scritto:
Trovo l'articolo del Manifesto al solito evasivo e fuorviante, tutto impostato solo su sospette tematiche "umanitarie".
Nessuna analisi sulla drammatica situazione politica della Libia e sulle chiare responsabilità dell'imperialismo europeo e nordamericano. Quelli che oggi piangono sui "migranti" sono molte volte gli stessi che invitavano a distruggere la Libia, ovviamente sempre per ragioni "umanitarie" e per "la responsabilità di difendere i civili". Vero Rossanda? Vero Levy?
----Messaggio originale----
Da: "Marco Palombo"
Data: 30/07/2017 9.36
A: "Marco Palombo"
Ogg: [nowaroma] Liana Vita (Manifesto)- La missione in Libia viola il divieto di respingimenti
il Titolo che ho messo al post è la segnalazione sulla prima pagina del manifesto dell' articolo posto in una pagina interna.
M.P.
Missione senza tetto (costa 7 milioni) né legge internazionale
La missione Gentiloni. Il costo dell'invio di navi militari italiane in Libia non sarà inferiore a Mare Nostrum ma molto più pasticciata
Liana Vita
EDIZIONE DEL
30.07.2017
PUBBLICATO
29.7.2017, 23:58
Innanzitutto serve un ripasso di diritto internazionale. Il principio di non-refoulement così come enunciato nella Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 non lascia margini interpretativi: l’obbligo di non inviare un rifugiato, o un richiedente asilo, in un paese dove potrebbe essere a rischio di persecuzione, non è soggetto a restrizioni territoriali. Se non bastasse, una esplicita norma sul non respingimento è contenuta nell’art. 3 della Convenzione contro la tortura del 1984, che proibisce il trasferimento di una persona in un paese dove vi siano fondati motivi di ritenere che sarebbe in pericolo di subire tortura, arbitraria privazione della vita o altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti.
Anche l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentale dell’Unione Europea è molto chiara: il divieto di respingimento non può in alcun modo essere aggirato, neanche quando si chiamano i respingimenti in maniera diversa, e cioè azioni di soccorso in mare oppure operazioni tese a stroncare il traffico di persone. Così dice la Corte europea dei diritti umani nella parte finale della sentenza di condanna all’Italia nel 2012 sul caso Hirsi-Jamaa e altri, definendo illegali i respingimenti verso la Libia del 2009.
E già in una sentenza del 2001 la Cedu aveva sostenuto che la competenza giurisdizionale di uno Stato può essere estesa extra-territorialmente se quello Stato «attraverso l’effettivo controllo del territorio in questione e dei suoi abitanti all’estero come conseguenza di occupazione militare o attraverso il consenso, l’invito o l’acquiescenza del governo di quel territorio, esercita tutti o parte dei pubblici poteri che di norma sono esercitati da quel governo».
E, più recentemente, il regolamento istitutivo dell’agenzia Frontex del 2014 specifica ulteriormente che gli Stati membri impegnati a prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima, devono assicurare che le rispettive unità partecipanti si attengano all’obbligo internazionale di non respingimento, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova.
Rispolverati i fondamentali, la domanda è: può tutto questo impianto di diritto internazionale essere accantonato – e di fatto scavalcato – se a fare il lavoro sporco davanti alle coste di Tripoli non saranno i mezzi della Marina militare italiana ma il più esile – e tutto da mettere in piedi – dispositivo della Guardia costiera libica?
Immaginare lo scenario che potrebbe verificarsi nei prossimi mesi in quel tratto di Mediterraneo evoca immagini terribili o drammaticamente comiche, se non stessimo parlando di esseri umani disperati e già duramente provati da quanto subito in Libia prima di imbarcarsi: gommoni carichi di donne, uomini e bambini in mare, senza motore, alla deriva, in attesa che vengano prima intercettati dalle nostre navi militari e poi avvicinati dalle motovedette libiche per essere riportati indietro in modo che tecnicamente non si possa parlare di respingimento. E una volta in Libia? A chi verranno riconsegnati? Ci saranno i campi delle organizzazioni internazionali? Ci saranno i funzionari europei pronti a raccogliere le richieste di asilo e a smistare i richiedenti nei diversi Stati europei? Domande a cui oggi evidentemente non si può dare una risposta.
Tutto ciò sempre che la situazione in mare non sia grave e i gommoni non stiano per affondare, circostanza che comporterebbe invece l’obbligo immediato da parte dei nostri militari di intervenire, come tra l’altro orgogliosamente fatto finora. E a quel punto? Non potremmo riportare i profughi in Libia e, secondo quanto previsto dal diritto del mare, ci si dirigerebbe in Italia, luogo sicuro più vicino.
Il piano del governo Gentiloni dovrebbe costare circa 7 milioni di euro al mese, cifra di poco inferiore al costo mensile dell’operazione Mare Nostrum. Un dettaglio su cui interrogarsi profondamente di fronte alla svolta rischiosa e irresponsabile che si sta attuando.

venerdì 28 luglio 2017

MACRON, HAFTAR E I GOVERNICOLI ITALIOTI - L’assassino? Per “manifesto” e neocon sempre e comunque al Sisi!


Macron inizia a sistemare le cose per Total e ai danni di ENI riunendo al tè delle cinque,  con intelligenza pari all’ottusità del governo italiano, il farlocco bottegaio Serraj (fantoccio ONU e Usa, ma soprattutto dei tagliagole di Misurata) e il generale Haftar, a capo, non di una milizia di qualche signore della guerra, ma  dell’ Esercito Nazionale Libero, forza armata dell’unico parlamento democraticamente eletto (Tobruk), padrone ormai di tre quarti della Libia e del suo petrolio. Appoggiato dall’Egitto e dalla Russia. Il che ai francesi sta bene. E starebbe bene pure all’ENI, dunque all’Italia. E neanche Trump pare aver niente da ridire. Ma Roma, sotto pressione della criminalità politica organizzata statunitense e dei suoi tentacoli sinistro-imperialisti (tipo il manifesto), Haftar, amico di Al Sisi, di Putin e riabilitatore di Saif Al Islam Gheddafi, non lo toccherebbe neanche con una pertica.

Infatti hanno molto da ridire i neocon, impegnati a rastrellare tutto quello che serve all’espansione dell’Impero e all’attacco finale alla Russia e che vedono rosso appena qualcuno rifiuta il reclutamento. Di conseguenza sta malissimo a “il manifesto”, gazzetta locale dello Stato Profondo Usa (CIA-Wall Street-Pentagono-lobby talmudista) che delle nefandezze, infamie, obbrobri, nequizie, da attribuire al presidente egiziano Al Sisi ha fatto crocevia di tutta la sua informazione internazionale. L’organo che del rapinatore della sovranità, libertà e benessere dei popoli, George Soros, con la direttrice  Rangeri s’è fatto sempre più spudoratamente palo e poi, a esito felice delle sue mosse (vedi trafficanti Ong),  celebratore, sfida per potenza di comicità e culto del nonsense un Plauto, o un Petrolini, quando insiste a mantenere, per quanto ridotto a dimensioni di deiezione di mosca, il titoletto False Flag “quotidiano comunista”.

Ne parlo tanto, del “manifesto”, perché ho sempre pensato e constatato che, mentre il vero nemico ti si squaderna di fronte sputandoti o sparandoti, il finto amico tiene una lametta nella pacca sulla spalla. Ho un ricordo personale. Anni ’90, Norma Rangeri critica televisiva, io inviato di ambiente al TG3. Illustro, con il dovuto raccapriccio e l’indispensabile violenza delle immagini, le malegrazie dei cosmetici che accecano conigli per testare colliri o mascara, o il sadismo dei collaudatori di automobili che schiacciano scimmie tra morsetti d’acciaio per vedere a che punto la pressione ne sbriciola il cranio. La Rangeri censura, deprecando il turbamento che nelle anime sensibili (tipo quelle del “manifesto”) “quella macelleria” del cronista esibizionista potrebbe causare. Le multinazionali farmaceutiche e i vivisezionisti ringraziano. Se ne potevano capire le priorità fin da allora.

Inserendo la sua vocina bianca nel coro tonitruante dei MSM (mainstream media) che vanno a molla, molla caricata dallo Stato Profondo, il “manifesto” non sbaglia una nota quando si tratta di satanizzare i cinesi e santificare i Cia-friendly Uiguri., di comprendere benevolmente la presenza militare Usa quando si oppone al burka dei Taliban, di accreditare come inconfutabile ogni attribuzione di attentati False Flag a Isis, Al Qaida, o “lupi solitari”, di onorare monarchi assoluti come il papa, o il Dalai Lama al soldo della Cia, e di condividere il disgusto per “dittatori” eletti dal popolo in paesi dalla sanità, istruzione, casa, lavoro per tutti e dalle donne più libere delle mercenarie curde degli Usa. Tipi come Milosevic, Saddam, Gheddafi, Assad…


In Egitto, nel 2013, l’insurrezione di decine di milioni di egiziani laici cacciò dal trono Mohamed Morsi,  un ultrà islamista eletto del 17% della popolazione, fiduciario dei britannici padrini dei Fratelli Musulmani, instauratore della sharìa e massacratore di operai e copti. Subita la sconfitta. il braccio armato della Fratellanza ha instaurato un regno del terrore, con la successione di attentati e stragi ai danni di civili comuni, cristiani copti, forze della sicurezza, soldati di leva, finalizzato alla distruzione economica del paese, anche attraverso il sabotaggio del turismo, cruciale voce del  bilancio nazionale. Ma di questa campagna terroristica, che annega il paese in laghi di sangue e rende quelle in Europa, o in altri paesi in cui l’imperialismo agita questa sua arma, modeste turbative del quieto vivere, al “manifesto” poco cale.

Moltissimo, da apertura in prima e paginoni interni, gliene cale, invece, di Tharwat Samah, diciannovenne egiziano trovato morto e torturato il 24 luglio nella periferia nord del Cairo. Non se ne sa nulla. Non era un dissidente, non sembra facesse politica, insomma per il momento un Carneade. Tuttavia, né al “manifesto”, né ai suoi referenti nelle Ong dei “diritti umani” cari a Soros che, da Amnesty ai fiduciari locali della “società civile,” si avventano sul corpo straziato del ragazzo, sfugge l’occasione per rinnovare l’aassalto ad Abdel Fatah Al Sisi. Colui che protegge Haftar, non partecipa alla crociata contro la Siria, balla il valzer con russi e cinesi, detiene tanto gas assieme all’ENI, da mettere in crisi le Sette Sorelle e, soprattutto, l’emergente potenza gasifera di Israele.

Uno come lui non può ricevere in carico da Amnesty e affini, “manifesto” mosca cocchiera, che migliaia di prigionieri politici, carceri della tortura, sparizioni come fosse il Messico, repressione tra le cui maglie i pur vivi e prosperi giornali e siti d’opposizione, contigui a Soros e al “manifesto”, sudano a farsi strada, poveretti.

E così la deontologia marca “manifesto” permette di urlare, a 24 ore dal ritrovamento e a indagine neppure avviata, TORTURATO A MORTE IN EGITTO, “THARWAT UCCISO COME GIULIO”.

Vi rendete conto? Non ne sanno una cippa, ma ti vogliono far rabbrividire – e convincere – dalle “coincidenze”. Regeni giovane? Tharwat giovane. Regeni trovato in periferia? Tharwat trovato in periferia. Regeni torturato? Tharwat torturato. Prima ipotesi: lesioni da incidente stradale? Uguale.  Poi, stesso distretto e, dunque, stesso procuratore. Ma soprattutto, stesso presidente! E di Al Sisi si sa: non fa colazione se non dopo aver firmato un centinaio di ordini di arresto, tortura, esecuzione.

A queste balle sesquipedali, il giornale, talmente ossessionato da Al Sisi da avergli dedicato più spazio di contumelie e fantasie di quelle dedicate  dagli storiografi dell’establishment cristiano, altrettanto immaginifici, a Caligola, aggiunge poi una scheda di scelleratezze del reprobo golpista tanto agghiaccianti quanto del tutto prive di verifica, di fonti attendibili, di documenti. Se per verifica non s’intendono gli agitporp dei crimini  Usa contro l’umanità, come Amnesty, quando ci raccontano di 13milla anonimi strangolati nelle carceri di Assad. O come Save the children quando giura che Gheddafi forniva viagra ai soldati perché stuprassero bimbetti. O come Medici Senza Frontiere, gli “eroi” dei salvataggi telefonati, quando dicono che Assad si accanisce sugli ospedali di Aleppo, poi risultanti inesistenti o integri.


Il “manifesto” insiste sulle similitudini tra il caso Tharwat Sameh e il caso Regeni. Dato che esso le basa su un costrutto di fuffa  degno di Eta Beta, noi vogliamo suggerirgliene una, di similitudini, con qualche addentellato alla realtà. Voi, “manifesto” e turba sinistro-imperialista, avete voluto fare di Giulio Regeni una vittima della repressione di Al Sisi (nel momento in cui Roma e Il Cairo trattavano grossi affari di mutuo interesse, del tutto invisi a Israele, Usa e relative periferie) e così ne avete dovuto coprire il retroterra oscuro di collaboratore, nell’agenzia di spionaggio “Oxford Analytica”,  di pendagli da forca angloamericani come John Negroponte e Colin McColl. Cosa pubblicata sui maggiori quotidiani italiani e su cui famiglia, “manifesto” e Luigi Manconi hanno sempre steso veli necessariamente complici. Figuriamoci se “il manifesto” gli ha mai chiesto perché.
Ora, in condizioni analoghe a quelle del ricercatore di Cambridge (e su cui l’università di Cambridge, non disposta a imbarazzare i servizi segreti di cui è tradizionale culla, ha mantenuto il riserbo) è stato ritrovato il povero Tharwat. E, a forza di forcipi forniti dall’inventiva dei fabbricatori di fake news imperiali, i soliti cantori ne hanno estratto “coincidenze” e invenzioni per rilanciare il sempre più sbrindellato teorema del Regeni ucciso dal regime perché amico di sindacalisti critici e conseguentemente sparare  l’ennesimo siluro ad Al Sisi, all’Egitto, ai suoi partner e al ruolo che al più grande paese arabo spetta.

Caviamo dalla nostra fantasia qualche mattoncino di Lego e proviamo a costruire anche noi il nostro arzigogolo. Quello secondo cui il caso Regeni è stato costruito dal principio alla fine, cioè alla morte, da coloro che intendevano buttare una chiave inglese tra le gambe di Al Sisi (e Italia ed ENI), prima sobillando chi si prestava a essere sobillato e, poi, a copertura dell’inviato saltata, togliendolo di mezzo, ma scaricando il cadavere sulla soglia del presidente. E Tharwat, fatto ritrovare in condizioni e circostanze che i noti coristi avrebbero gonfiato fino a farne il doppelgaenger di Regeni, pur non disponendo di mandanti come quelli di Oxford Analytica e, dunque, privo di una missione specifica, non potrebbe essere stato una seconda sbarra tra le gambe di Al Sisi e tra le ruote di un Egitto che, anche con il suo uomo vincente in Libia, Haftar, promosso a protagonista da Parigi e Mosca, torna protagonista in Nord Africa e Medioriente, scompigliando certe pianificazioni?

E’ un arzigogolo come un altro. Magari anche migliore.

Cosa non si fa per un pulpito! Anche fatiscente....


Le anime belle, i sedicenti comunisti, ex-comunisti, neocomunisti,  post-comunisti, protocomunisti, paracomunisti,  criptocomunisti, colonialcomunisti (trotzkisti), comunisti da calamaio, comunisti antimperialisti, psicocomunisti, cibercomunisti, comunisti del settimo giorno, comunisti e non- comunisti filorussi (ce ne fosse uno vero!), come si sentono a mettere la propria firma, nel “manifesto”, accanto a quella di chi così bene sostiene la vulgata dell’Impero? Quelli che trascorrono disinvolti sulla condivisione  Quelli che si sono fatti rifilare dal sempre più prospero e meno mendicante giornaletto una turbo- campagna elettorale per il mostro-fine-del-mondo Hillary. Quelli che, sorvolano disinvolti sulla condivisione nel “quotidiano comunista” della russofobia e relativa caccia alle streghe scaturita dall’immane panzana del Russiagate e rilanciata sera dopo sera dall’ineguagliabile Giovanna Botteri. Quelli che non hanno mosso ciglio sul rilancio delle bufale apri-guerra di Amnesty e HRW. 

Quelli che stanno zitti, senza una riga di solidarietà alla collega-compagna Geraldina Colotti, censurata dal "manifesto" perchè racconta il pogrom Usa-fascista in Venezuela alla vigilia del voto per la Costituente. Quelli che hanno assistito compunti alla denigrazione di tutti coloro che avanzavano qualche dubbio sulla versione ufficiale dell’11/9 e poi di tutti gli eventi simili. Quelli che restano a bocca spalancate davanti all’esaltazione delle meraviglie truculente dei videogiochi Usa di sterminio e nequizie. Quelli che sono passati leggeri sopra l’inserto a 4 pagine, non pubblicitario, in cui si raccontava della gioia di maestre e bambini all’incontro con l’ENI nella Basilicata della morte che cammina col petrolio. Quelli che si felicitano di un “manifesto” tenuto finalmente in saldi piedi dalla pubblicità di Telecom, Eni, Coop, Enel, Unicredit e da altri benefattori della classe operaia. Quelli che….


giovedì 27 luglio 2017

Cinque Stelle, Di Matteo, Calipari e relativi nemici



DA ADRIANO COLAFRANCESCO RICEVO E AGGIUNGO

E in Campidoglio insignito il primo magistrato anti-mafia e anti-Stato mafioso, il più minacciato da Stato e criminalità organizzata, Nino Di Matteo, della cittadinanza onoraria di Roma. Assenti dall’aula tutti i gruppi tranne quello dei 5 Stelle. Vorrà pur dire qualcosa.

Nei giorni in cui la magistratura reggina, uno degli ultimi pezzi di magistratura non collusa con Renzi e le cosche/logge/banche che lo sburattinano, arresta i ‘ndranghetisti che, in unione con Cosa Nostra, volevano ammazzare il poliziotto Nicola Calipari, poi ucciso in Iraq dagli Usa, a conferma di una sinergia Usa-mafie-massoneria-regime che dura dallo sbarco del 1943 e si è esteso a livello europeo a partire da Ventotene e a finire a Bruxelles.

Le armi del carcinoma? Tecnologie cibernetiche, Guerre, terrorismo, austerity, repressione, sorveglianza, migrazioni di massa. Di riserva: "il manifesto" e Boldrini.
Fulvio




From: Adriano Colafrancesco
Sent: Thursday, July 27, 2017 9:42 AM
To: d - ufficiostampala7
Subject: Dopo gli anni di Mafia CaPDale
Dopo gli anni di
MAFIACAPITALE

approvato per la prima volta il bilancio preventivo a gennaio: prima di tutte le altre grandi città italiane e molto prima rispetto alle amministrazioni precedenti,

allargato il progetto “Fabbrica Roma” a sindacati, imprenditori, mondo della ricerca, università, altre Istituzioni e tutta la società civile,

ripristinata la legalità: grazie alla programmazione non si danno lavori in affidamento diretto con il pretesto dell’emergenza,

contenuta la spesa annua per gli incarichi esterni: circa un quarto rispetto ai 12 milioni di euro del 2012 e quasi la metà rispetto ai 5,6 milioni del 2014,

avviata una seria attività di risanamento delle strade: atteso l’esito delle gare, finalmente i lavori sono realizzati a regola d’arte, perché c’è un contratto da rispettare e c’è un piano pluriennale per la manutenzione (che prima non veniva fatta),

potenziato di 200 unità il parco mezzi per il trasporto pubblico e dotati 500 autobus di telecamere di sicurezza,

potenziata la linea ferroviaria Roma-Lido,

unificata la via del Mare con la via Ostiense fino al Gra,

completata (in autunno) l’unione delle linee A e C della metropolitana a San Giovanni,

dotata Ama di mezzi nuovi per la raccolta dei rifiuti,

attivate nuove isole ecologiche,

avviato il recupero delle spiagge di Ostia,

migliorato il progetto dello stadio di Tor di Valle: meno cemento, più verde,

messo in sicurezza il quartiere di Decima,

negati lo stupro e la rapina olimpionici.

Non c’è dubbio che si è messa la parola fine ad un sistema corrotto che per anni ha “mangiato” i soldi delle nostre tasse per avvantaggiare pochi e ha fornito servizi sempre più scadenti e non all’altezza di una grande capitale.

Adriano

Passaparola

martedì 25 luglio 2017

Eritrea: là dove l’Italia non ha coraggio Fulvio Grimaldi ci racconta l'Eritrea che non trapela in Occidente, Paese che per 'aiutarli a casa loro', meglio se li "lasciamo fare!", visti i danni fatti

Eritrea: là dove l’Italia non ha coraggio

Fulvio Grimaldi ci racconta l'Eritrea che non trapela in Occidente, Paese che per 'aiutarli a casa loro', meglio se li "lasciamo fare!", visti i danni fatti

Questa intervista integra il mio precedente articolo sulle menzogne e calunnie riprese dal missionario,  Padre Alex Zanotelli, dalla campagna di demonizzazione lanciata dall’imperialismo neocolonialista contro il paese più libero, indipendente e socialmente equo del continente africano.

L’appello vergognoso rivolto dal comboniano iper-eurocentrico ai giornalisti italiani perchè diffondano bugie e diffamazioni sui paesi che l’imperialismo vuole depredare e distruggere ha definitivamente smascherato questo ambiguo pacifista che pensa di salvarsi l ‘anima criticando le vendite d’armi e saltando a piè pari tutte le nefandezze colonialiste nel cui contesto quelle armi occidentali si collocano.    

Eritrea: là dove l’Italia non ha coraggio

Fulvio Grimaldi ci racconta l'Eritrea che non trapela in Occidente, Paese che per 'aiutarli a casa loro', meglio se li "lasciamo fare!", visti i danni fatti
 di CESARE GERMOGLI  20 luglio 2017 17:00
Credit EritreaLive
Aiutiamoli a casa loro‘, la formula magica sventolata dalle forze politiche di turno con cui si cerca di buttare acqua sul fuoco quando si parla, ormai quotidianamente, del problema immigrazione.
Niente da ridire sul proposito, ovviamente, la cui giustezza di fondo è quasi lapalissiana. Qualche dubbio può invece sorgere quando si cerca di capire le modalità con cui tale linea andrebbe seguita, ma anche qui rimaniamo nel campo non inedito dei propositi non accompagnati da piani concreti.
se scoprissimo che non solo stiamo facendo poco per favorire il progresso economico e sociale in Africa, ma che al contrario stiamo operando nella direzione opposta, cosa dovremmo pensare?
Questo sembra emergere quando si ascolta la testimonianza di Fulvio Grimaldi, giornalista e inviato di guerra per RAI e BBC, poi documentarista indipendente che, dopo una recente visita in Eritrea, ha realizzato insieme a Sandra Paganini ‘Eritrea una stella nella notte dell’Africa‘, un docufilm che racconta una verità diversa su quello che oggi è il paese più demonizzato dell’Africa.
Abbiamo quindi parlato con lui dei rapporti tra il nostro paese e la prima delle sue ex colonie, le cui autorità auspicano un intensificarsi dei rapporti con l’Italia risultando però inascoltate.
Cerchiamo dunque di andare oltre la superficie e di capire cosa c’è realmente dietro ad una situazione diversa da come la possiamo immaginare, e da come ci è stata raccontata.

In cosa consiste la specificità dell’Eritrea nel contesto africano, in particolare nei rapporti con l’occidente?
Innanzitutto la questione Eritrea andrebbe sempre affrontata inquadrandola nel contesto complessivo del continente africano, che in questo momento è sicuramente sotto un attacco massiccio di molte potenze che si sono rese conto che lì c’è un futuro fatto di grande potenziale economico, e quindi di arricchimento inestimabile. E che ci sono le condizioni, anche dal punto di vista politico e sociale, per intervenire e approfittarne, data la presenza di una serie di governi corrotti che hanno aperto le porte ad nuovo colonialismo, sostanzialmente portato avanti dalle stesse potenze coloniali di un tempo, più gli Usa ora in prima fila, ma con rinnovato vigore.
In questo contesto l’Eritrea si colloca un po’ a parte, ricoprendo una posizione molto specifica e diversa dalla maggioranza dei paesi africani, in quanto non è succube dei diktat degli organismi finanziari e politici internazionali. Questo ha comportato naturalmente l’inimicizia delle potenze occidentali, accompagnata anche da una massiccia propaganda mediatica ostile, in quanto questo paese esce dal quadro di quello che si vorrebbe che fossero i governi subalterni del sud del mondo, per esempio non accettando (unico paese africano insieme allo Zimbabwe) alcuna presenza militare statunitense sul proprio territorio.
Tale clima che si è creato attorno all’Eritrea si è sostanziato, tra i vari modi, nelle sanzioni comminate dall’Onu nel 2009.

Quanto è critica attualmente la situazione politica ed economica dell’Eritrea?
Le sanzioni del 2009 hanno sicuramente peggiorato una situazione venutasi a creare anche in seguito all’uscita dell’Eritrea da una guerra di liberazione trentennale, poiché le rendono difficile svolgere un ruolo di partner economico nei confronti di altri paesi senza che questi vengano a loro volta sanzionati e isolati.
La realtà è comunque diversa da quella che la propaganda mediatica vuole far passare per vera, cioè quella di un paese ostaggio di una dittatura che è causa di povertà estrema, dalla quale la popolazione cercherebbe di fuggire in tutti i modi. La politica sociale del governo è improntata a una equa distribuzione della ricchezza, tale da cancellare fame e miseria. Si tratta di un modelloo di giustizia sociale ed ecologica chge non può che essere inviso, per il suo potenziale di contagio, agli interessi predatori del nuovo colonialismo.

Cosa determina quindi la grande affluenza di migranti eritrei verso l’Europa?
In questo senso le problematiche economiche sono determinanti, non quelle politiche. Le sanzioni internazionali hanno frenato notevolmente uno sviluppo che negli anni dopo la liberazione, 1991, e fino all’aggressione etiopica del 1998-2000 (su mandato Usa), era stato tra i maggiori nel continente africano.
Ho girato ripetutamente l’Eritrea e non ho riscontrato assolutamente le condizioni di miseria estrema e di fame che si trovano in tanti altri paesi del continente. E questo per merito di un governo che ha posto come sua assoluta priorità l’autosufficienza, la non dipendenza dagli organismi internazionali, una politica che pone al primo posto i mbisogni basilari della popolazione e dove, di conseguenza, le disuguaglianze sono minime,
Ciò si può notare da una parte all’altra dell’Eritrea dove non si trova una povertà estrema nonostante le difficili condizioni che il paese ha dovuto affrontare, tra  guerre di aggressione, isolamento economico e diplomatico e la mancanza di scambi commerciali se non con alcuni paesi arabi e che se ne infischiano delle sanzioni internazionali.
Questo isolamento ha sabotato la capacità del mercato del lavoro di assorbire la domanda delle nuove generazioni generando un flusso migratorio cospicuo, ma gonfiato nelle statistiche e anche da un pull factor inventato dai colonialisti per svuotare il paese delle sue migliori energie. Infatti, ai rifugiati eritrei, e solo a  loro,è concesso automaticamente il diritto d’asilo in Europa, e per questo motivo molti profughi provenienti da paesi vicini, come Etiopia, Gibuti, Somalia, con grandi affinità etnmiche, linguistiche e culturali, vantano strumentalmente la cittadinanza eritrea per godere dei diritti che a loro non sarebbero concessi.
A questo si aggiunga la tendenza naturale al ricongiungimento famigliare con la prima generazione di immigrati eritrei, giunti nel nostro paese in particolare negli anni ’70, in fuga dali bombardamenti e dalla repressione del regime etiopico.

Il ministro degli Esteri eritreo ha recentemente manifestato un grande interesse all’intensificarsi dei rapporti politici, economici ed imprenditoriali con l’ex potenza coloniale italiana, non trovando però nel nostro paese un ascolto attento. Se è veramente così che occasione stiamo perdendo?

È certamente così. Questa è una grande vergogna storica dell’Italia che ha nei confronti dell’Eritrea un debito gigantesco. Siamo stati una colonia rapinatrice e predatrice, abbastanza spietata e con caratteri analoghi all’apartheid sudafricana. Certamente abbiamo anche contribuito ad un certo sviluppo del paese in ambito urbanistico, agricolo e dell’industria leggera, ma sempre e soprattutto a beneficio delle classi borghesi italiane colonizzatrici. Alla popolazione indigena non era permesso di accedere all’istruzione superiore, non si doveva superare la quarta elementare,  si restava confinati nei propri ghetti con accesso accesso solo ai lavori più umili. 
Tutti i governi del dopoguerra sono responsabili del  rifiuto di un doveroso e anche proficuo rapporto di amicizia e collaborazione. Politica autolesionista, dato il grande potenziale geostrategico e geoeconomico offerto dall’Eritrea per la sua posizione strategica cruciale sul Mar Rosso e sullo stretto di Bab-el-Mandeb, che, aprendo all’Oriente, costituisce una specie di ponte tra Medio Oriente, Asia, Europa e Africa; oltre ad essere un paese ricco di risorse naturali.
Non abbiamo avuto la forza e il coraggio di approfittare di questa condizione di potenziale partnership privilegiata con un paese chiave nell’area del corno d’Africa e questo per sottostare agli interessi delle multinazionali e dei centri di potere occidentali. Si tratta delle stesse dinamiche che hanno portato alla caduta di Gheddafi in Libia, altro paese con cui l’Italia godeva di rapporti privilegiati sul piano economico ed energetico in particolare. Anzi, aderendo alla guerra di sterminio lanciata da Francia, Usa, Nato abbiamo compromesso forse definitivamente, oltre la pace nella nostra area e la sopravvivenza di un grande paese,  i nostri interessi. Interessi  che sono stati sostituiti da quelli degli altri.

Un miglioramento nei rapporti tra Italia ed Eritrea potrebbe rientrare nel famoso paradigma dell”Aiutiamoli a casa loro”? E quanto questo potrebbe incidere sul contenimento dei flussi migratori?

Anche solo il ritiro delle sanzioni economiche ridurrebbe ad un fenomeno marginale l’emigrazione di giovani dall’Eritrea. Per cui dovremmo smetterla di cercare di imporre i nostri modelli di assetto politico ed istituzionale ad altri paesi.  La storia dimostra che con questo pretesto, insieme a quello della difesa dei diritti umani, l’occidente ha più volte causato disastri piuttosto che risolvere problemi. In sostanza, per aiutarli a casa loro, per evitare che Eritrea e Africa vengano svuotate dalle loro giovani generazioni, cioè’ dalle migliori energie, dal futuro, per offrirsi nude alla spoliazione colonialista, con parallela destabilizzazione di molti paesi europei,  basterebbe astenersi dal volere loro dettare quel che devono fare, rispettarne autonomia e libertà di scelta. Collaborare nel quadro di questo rispetto.

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